La Corte di Cassazione, con la sentenza 45680 depositata il 1° dicembre, ha respinto il ricorso di un uomo condannato dalla Corte di appello di Messina a seguito dell’accusa, comparsa sul suo sito, di “vicinanza alla mafia” di una società e dei suoi esponenti, a cui il blogger aveva aggiunto anche una sua annotazione a essa “adesiva”.
La V Sezione penale ha chiarito i limiti della responsabilità penale del blogger tracciandone le differenze rispetto alle testate giornalistiche affermando che non è possibile applicare a un sito Internet o ad un blog la stessa responsabilità in capo al direttore responsabile di un giornale. Pertanto, l’imputabilità del fatto deve essere ricostruita o in base alle comuni regole del concorso nel reato, nel caso in cui il post lesivo sia stato scritto da un utente; oppure per attribuzione diretta se il commento è stato scritto dallo stesso titolare o gestore del blog.
Il concorso in diffamazione, continua la Suprema Corte, viene individuato nella consapevole condivisione di un contenuto offensivo dell’altrui reputazione e la lesione viene replicata tramite il mantenimento del post diffamante, cioè attraverso la mancata rimozione del post incriminato: in questo modo, concludono gli Ermellini, si ha l’effetto di divulgare ulteriormente (e, a questo punto, volutamente) il contenuto.
Nel caso specifico, dunque, una volta esclusa la posizione di garanzia e il conseguente obbligo di impedire l’evento da parte dell’amministratore, “si è delineata la possibilità di attribuire la diffamazione a titolo di concorso”. E il concorso è stato individuato “nella consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica dell’offensività realizzata tramite il mantenimento consapevole sul blog dello scritto diffamante”.
In conclusione, la Suprema Corte ha ritenuto che la “mancata tempestiva attivazione del gestore del blog nella rimozione di proposizioni denigratorie costituisca adesione volontaria ad esse, con l’effetto, a questo punto voluto, di consentire un’ulteriore divulgazione”.
Correttamente dunque la Corte territoriale, conclude la Cassazione, ha ricostruito la responsabilità dell’imputato non in termini di omessa vigilanza e controllo, avendo escluso che ricoprisse una posizione di garanzia, ma a titolo concorsuale secondo i princìpi generali, in quanto, “avendo pacificamente conosciuto il contenuto antigiuridico del messaggio pubblicato non aveva provveduto alla sua rimozione, né aveva informato l’autorità competente dall’oscuramento”.