Avvocato Saponara, la notizia delle indagini nei confronti degli utenti che hanno rivolti insulti e frasi discriminatorie nei confronti della senatrice a vita Liliana Segre ci ribadisce, ancora una volta, l’importanza delle regole sul comportamento che è necessario mantenere in rete. Quali sono le sue sensazioni sull’accaduto dopo questa decisione?
La mia sensazione è che si sia a un punto di svolta rispetto alla considerazione di ciò che alimenta il dibattito sui social network. Sempre più decisioni giurisprudenziali, con largo eco sui media fanno prendere coscienza che l’agire comunicativo pubblico lì si è trasferito, e non si tratta più di distinguere tra una comunicazione quasi inconsapevole, veloce, superficiale, da bar globale, da guardare con indulgenza e sostanzialmente scriminata e quella degli ambiti in cui si sviluppa ordinariamente la discussione politica.
Si comincia a ritenere che se non vi si pone attenzione, anche questi nuovi grandi ambiti di democrazia possono essere vulnerabili in modo letale se inquinati da odio e intolleranza gratuiti: ne va cioè, alla lunga non della reputazione delle persone, pure valore imprescindibile, ma del nostro agire pubblico e collettivo.
Ci potrebbe brevemente riassumere le diverse fasi di questa vicenda che l’ha vista coinvolta in prima persona?
La Senatrice Segre ha presentato svariati atti di denuncia tra il 2022 e il 2024, che la Procura di Milano non ha definito singolarmente ma ha riunito in un unico fascicolo; le ipotesi di reato erano in gran parte di diffamazione aggravata dall’uso del web, e in taluni casi aggravata dalla finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso.
All’inizio del 2025 la Procura ha disposto la notifica di avviso di conclusione delle indagini per 12 persone, mentre per altri soggetti identificati il Pubblico Ministero o ha richiesto l’archiviazione, sulla base del fatto che quanto denunciato fosse scriminato dal diritto di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantito nonché del diritto di critica politica, oppure nemmeno ha ritenuto di procedere nei loro confronti alla iscrizione nel registro delle notizie di reato considerando i messaggi sicuramente offensivi, ma non diffamatori.
In alcuni casi sono state svolte attività per l’individuazione degli altri autori sconosciuti, ma complice la intermittente o nulla collaborazione offerta dai Provider, non si sono ottenuti risultati.
Abbiamo proposto opposizione a tale richiesta di archiviazione, e il Giudice per le Indagini Preliminari ha deciso così come riportato dalla stampa: in molti casi giudicando insufficiente o parziale l’attività di indagine svolta, e invitando il PM ad integrarla utilizzando anche le ricerche sulle informazioni personali presenti sui profili social. In altri casi ha disposto l’imputazione coatta o l’iscrizione nel registro degli indagati. In altri casi ancora, ha disposto l’archiviazione.
Esistono, secondo Lei, dei rimedi giuridici e tecnologici per mettere un freno al dilagante fenomeno dell’odio in rete?
Due considerazioni tra tante. Si dice comunemente: tutto il potere è in mano alle piattaforme, sono poche, sono in sostanza concentrate negli Stati Uniti, perseguono ovviamente logiche di profitto di cui l’hate speech può essere addirittura un suscitatore.
L’Europa è impegnata a regolamentare tutto scrupolosamente, senza dubbio, ma non ad investire: perché, viste le ingenti risorse che tutti gli stati europei impiegano nelle TV pubbliche, non si potrebbe pensare a piattaforme alternative, interessanti, “pulite”, attraenti, di qualità? Perché non possiamo avere piattaforme pubbliche europee?
Io credo poi che l’ambito penale sia irrinunciabile anche come faro di orientamento valoriale netto, e se si investisse (in uomini, mezzi, organizzazione e strategia) per renderlo efficiente in questo campo, con tutte le cautele e i crismi di principio che la Costituzione ci impone, sarebbe strumento anche più efficace delle automoderazioni algoritmiche o non, che possono essere arbitrarie o strumentalizzate a scopo di censura di opinioni o notizie poco gradite, anche in assenza allo stato di una definizione di discorso d’odio giuridicamente vincolante.
In che modo l’intelligenza artificiale può essere uno strumento utile a contrastare certi fenomeni discriminatori presenti sul web?
E’ stato ricordato, anche nel bel volume curato dal Prof. Razzante, che l’allarme suscitato dalle potenzialità dell’AI in termini di diffusione dei deepfake, indistinguibili dai contenuti autentici, a fini gravemente illeciti (truffe, diffamazioni, attentati ai diritti politici del cittadino attraverso l’inganno) può essere compensato dall’escogitare algoritmi antidoto che li possono smascherare.
Oppure ancora come strumento tecnico di contrasto all’odio in rete, sottoposto ad un equo bilanciamento tra la tutela della libertà di espressione del pensiero e lo hate speech tossico di odio gratuito, che aiuti a individuare i contenuti (e chi li adotta) da “attenzionare”.
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