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CHAT DI GRUPPO PRIVATA – LA RISERVATEZZA DELLA COMUNICAZIONE OFFENSIVA NON ESCLUDE IL SUO CARATTERE DIFFAMATORIO

di Daniele Concavo - Avvocato del Foro di Milano, opera nell'ambito del Diritto Penale, con particolare esperienza nella tutela della reputazione personale e aziendale

by Redazione
15 Aprile 2021
in Diffamazione
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CHAT DI GRUPPO PRIVATA – LA RISERVATEZZA DELLA COMUNICAZIONE OFFENSIVA NON ESCLUDE IL SUO CARATTERE DIFFAMATORIO
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Sempre di grande attualità è il tema relativo alla possibilità del datore di lavoro di licenziare o sospendere in via cautelare il dipendente, in ragione della sua pubblicazione sui social network di messaggi offensivi e lesivi dell’immagine l’aziendale.

Recentemente ArcelorMittal ha sospeso in via preventiva due suoi dipendenti per aver condiviso e pubblicato, sulla loro bacheca virtuale Facebook, espressioni reputate dannose per la reputazione della società, eccedenti il diritto di critica.

La fattispecie ha già in passato interessato la giurisprudenza. Secondo la Cassazione diffondere un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di social network integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Tale condotta, se tenuta da un dipendente, lede in maniera irreparabile il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro legittimando il licenziamento per giusta causa (in questo senso Cassazione, sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280 richiamata anche da Tribunale Livorno Sez. lavoro, Sentenza del 25/06/2020).

Ma sarà parimenti legittimo il licenziamento laddove il commento diffamatorio venga pubblicato dal lavoratore all’interno di una chat di gruppo privata o chiusa?

Secondo la decisione “isolata” della Cassazione n. 21965 del 2018 deve rispondersi negativamente a tale quesito.

Segnatamente, sulla scorta di un percorso motivazionale che costituisce tutt’oggi una novità in materia di diffamazione, la Suprema Corte di Cassazione nel settembre 2018 ha statuito che non integra il reato di diffamazione la condotta del dipendente che scriva messaggi offensivi nei confronti del proprio datore di lavoro all’interno di chat di gruppo private o chiuse, poiché in tali contesti le comunicazioni devono considerarsi inviolabili, ai sensi dell’art. 15 della Costituzione (Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 10-09-2018, n. 21965).

 

IL FATTO

Ricostruiamo brevemente i fatti di causa: il datore di lavoro intimava il licenziamento al proprio dipendente per le offese rivolte dal medesimo all’amministratore delegato e postate nella chat sindacale di gruppo (chat chiusa) di Facebook in cui il lavoratore denunciava i metodi “schiavisti” dell’azienda e utilizzava espressioni offensive nei riguardi del manager.

La Corte d’Appello accoglieva il reclamo proposto dal lavoratore e, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il comminato licenziamento.

La sentenza d’appello si fondava su due rationes decidendi, tra loro alternative: la prima, basata sul difetto di prova della attribuibilità al dipendente delle dichiarazioni sulla chat, per inidoneità probatoria del documento anonimo; la seconda, sulla insussistenza di una giusta causa di licenziamento per essere le espressioni comparse sulla chat, di dissenso del dipendente rispetto ai metodi dell’amministratore, riconducibili al legittimo esercizio del diritto di critica.

 Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione.

 

LA DECISIONE “ORIGINALE” DELLA CASSAZIONE

(Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 18/04/2018) 10-09-2018, n. 21965)

La Corte di Cassazione ha negato la configurabilità diffamatoria delle espressioni utilizzate non tanto per la loro natura “inoffensiva” ma poiché le invettive rivolte al manager aziendale erano contenute in comunicazioni connotate da riservatezza (ex art. 15 Cost.), la quale chat infatti, essendo accessibile ai soli utenti del gruppo Facebook, escluderebbe la volontà di una divulgazione esterna delle asserzioni da parte del dipendente aziendale.

Sostiene il Supremo Consesso che, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato (cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, quale è ad esempio una “chat di gruppo chiusa”), non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.

L’art. 15 della Costituzione definisce infatti inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione“.

La tutela della segretezza presuppone, oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione.

I messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione digitale, ove inviati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile.

L’illustrata condizione è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale.

Sulla scorta di tali premesse la Cassazione conclude pertanto per la mancanza del carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta ascritta al lavoratore, riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente, ritenendo assorbita la necessità di esaminare ogni profilo di rispetto o meno della continenza nell’esercizio del diritto di critica sindacale.

COMMENTO ALL’ORDINANZA

L’iter motivazionale seguito dalla Corte di Cassazione induce inevitabilmente alle seguenti considerazioni.

Come detto, la Suprema Corte ritiene che fra i presupposti del delitto di diffamazione vi sia la necessaria “divulgazione nell’ambiente sociale della comunicazione offensiva”, non configurabile in caso di corrispondenza indirizzata ad un insieme determinato di soggetti.

Si ritiene tuttavia che tale orientamento non sia del tutto condivisibile poiché in palese contrasto con la consolidata giurisprudenza penale in tema di diffamazione.

L’art. 595 c.p. “Diffamazione” sancisce infatti che: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.”

L’interpretazione letterale della succitata norma (ex. art. 12 delle preleggi) contiene i presupposti del reato di diffamazione:

  1. l’assenza dell’offeso;
  2. l’offesa alla sua reputazione attraverso l’uso di espressioni lesive;
  3. e la comunicazione con più persone.

Ebbene è sanzionabile la condotta quindi di chi offenda la reputazione di un terzo, assente, di fronte ad almeno due persone oppure dinnanzi ad una sola persona con il fine che poi quest’ultima ne riferisca ad almeno un’altra persona (ex multis, Cass. pen. Sez. V, 5 Agosto 2015, n. 34178, Corda, CED 264982; Tribunale Nola 29/04/2020 n. 241).

Il fattore della “necessaria divulgazione nell’ambiente sociale della comunicazione offensiva” non rientra strettamente nei requisiti della diffamazione né per il Legislatore né per la costante giurisprudenza sul punto.

Semmai, può ragionevolmente sostenersi come la circostanza della divulgazione nell’ambiente sociale della comunicazione lesiva della altrui reputazione ad un numero determinato di persone rilevi per ponderare la gravità della condotta ma non certamente per affermarne la liceità.

In ambito penale, ad esempio, il giudice è chiamato a valutare la gravità del reato sulla scorta degli indici fissati dall’art. 133 del codice penale. In base a tale norma, la gravità del fatto potrà essere desunta anche dai “mezzi” utilizzati dall’imputato per commettere l’illecito. All’interno di tale indice può certamente ricondursi la scelta “meno grave” del reo di utilizzare una chat di gruppo chiusa quale “strumento” per diffondere il proprio messaggio offensivo.

Nel caso in esame poi non sussiste neppure il diritto di “critica sindacale” posto che il lavoratore ha utilizzato espressioni gravemente offensive travalicando i limiti del diritto di critica sindacale (nel caso di specie, difetta il requisito della continenza formale), risolvendosi la sua azione in un’offesa gratuita alla persona e quindi in una diffamazione aggravata, ai sensi del comma 3 dell’art. 595 c.p.

In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono e della giurisprudenza richiamata, può dunque affermarsi che commette il delitto di diffamazione aggravata colui che scrive espressioni offensive della reputazione altrui anche all’interno di una chat di gruppo chiusa o privata.

Difatti, per quanto possa essere riservata la conversazione virtuale tra pochi utenti, i messaggi diffamatori ivi contenuti sono accessibili sia ai membri del gruppo sia a tutti coloro che ne entreranno a far parte in futuro.

Invocare la riservatezza di una chat di gruppo, al solo fine di scongiurare il rilievo penale di condotte diffamatorie, presterebbe il fianco alla creazione di un vuoto di tutela nel nostro ordinamento con conseguente sacrificio ingiustificato dei beni giuridici di rilievo costituzionale dell’onore e della reputazione, propri di ogni persona.

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