La Cassazione per affrontare il tema in discorso ha richiamato un suo importante precedente giurisprudenziale (Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 13252 del 04/03/2021, Viviano) che, nell’interrogarsi sulla natura ingiuriosa o diffamatoria dell’invio di e-mail a più destinatari tra cui anche l’offeso, ha operato una schematizzazione delle situazioni concrete in rapporto ai vari strumenti di comunicazione che possono dare luogo ora all’addebito ex art. 594 c.p. o quello ex art. 595 c.p..
Sostiene il precedente richiamato che:
- l’offesa diretta a una persona presente costituisce sempre ingiuria, anche se sono presenti altre persone;
- l’offesa diretta a una persona “distante” costituisce ingiuria solo quando la comunicazione offensiva avviene, esclusivamente, tra autore e destinatario;
- se la comunicazione “a distanza” è indirizzata ad altre persone oltre all’offeso, si configura il reato di diffamazione.
La decisione in parola ha altresì approfondito il concetto di “presenza” rispetto ai moderni sistemi di comunicazione, ritenendo che, accanto alla presenza fisica dell’offeso, vi siano anche situazioni ad essa sostanzialmente equiparabili, realizzate con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici (call conference, audioconferenza o videoconferenza), in cui si può ravvisare una presenza virtuale del destinatario delle affermazioni offensive.
Occorrerà, pertanto, valutare caso per caso: se l’offesa viene proferita nel corso di una riunione “a distanza” fra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipi anche l’offeso, ricorrerà sempre l’ipotesi della ingiuria commessa alla presenza di più persone (fatto depenalizzato) (in tal senso si veda Cass. Pen., Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020).
Invece, laddove vengano in rilievo comunicazioni indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti” (in accezione estesa alla presenza “virtuale” o “da remoto”), ricorreranno i presupposti della diffamazione, come la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato.
Orbene, sulla scorta dell’enucleazione del concetto di presenza virtuale di cui alla sentenza Viviano, la Cassazione osserva che la chat di gruppo di WhatsApp consente l’invio contestuale di messaggi a più persone, che possono riceverli e leggerli immediatamente o in tempi differiti.
In altre parole la percezione da parte della vittima dell’offesa può essere contestuale ovvero differita, a seconda che questa stia consultando proprio quella specifica chat di WhatsApp o meno; nel primo caso, vi sarà ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quanti sono i membri della chat perché la persona offesa dovrà ritenersi virtualmente presente; nel secondo caso si avrà diffamazione, in quanto la vittima dovrà essere considerata assente. Ciò posto il Giudice di merito dovrà verificare, appunto, se la persona offesa fosse virtualmente presente o assente al momento della ricezione dei messaggi offensivi.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte di Appello aveva offerto una motivazione non manifestamente illogica circa le ragioni per cui, se inizialmente (tra le ore 9.06 e le ore 9.43) vi era stato una sorta di botta e risposta tra l’imputata e la persona offesa (che potrebbe essere ritenuto sintomatico della percezione in tempo reale delle offese da parte del soggetto offeso, che configurerebbe l’illecito della ingiuria), successivamente però la persona offesa non aveva più risposto ai messaggi offensivi, nemmeno quando, una prima volta, alle ore 10.13, l’imputata aveva scritto “e rispondi vigliacca”, reagendo solo ad una seconda sollecitazione di tal fatta attuata dalla prevenuta alle ore 11.53.
Si tratta di un dato di fatto che lascia ragionevolmente ritenere che, dopo l’atteggiamento partecipativo inizialmente assunto, volto a difendersi dalle accuse che le venivano rivolte, la persona offesa abbia temporaneamente abbandonato la conversazione, leggendo solo in un secondo momento i messaggi che l’imputata continuava ad inviarle.
L’imputata aveva infatti percepito come la vittima non fosse più presente, tanto addirittura da esortarla a rispondere.
In altri termini, la cronologia dei messaggi WhatsApp riportata nella sentenza della Corte di Appello impugnata e l’atteggiamento tenuto dalla persona offesa e dall’imputata, costituiscono indicatori del fatto che l’offesa non fosse rimasta collegata alla chat in tempo reale e che avesse letto i messaggi offensivi scritti dopo le ore 9.43 solo successivamente. Ne consegue che la persona offesa non poteva più considerarsi presente quando l’imputata li aveva immessi configurandosi in tal modo il reato di diffamazione e non invece la fattispecie depenalizzata di ingiuria.
di Daniele Concavo –
Avvocato del Foro di Milano, opera nell’ambito del Diritto Penale, con particolare esperienza nella tutela della reputazione personale e aziendale