In queste ore di trepidante attesa per l’evoluzione del Coronavirus, accanto al rischio pandemia stiamo toccando con mano un altro pericolo, quello che potremmo definire “infodemia”, vale a dire la diffusione virale di informazioni urlate ed esagerate, capaci di provocare effetti devastanti sull’emotività, sullo stato d’animo e, conseguentemente, sui comportamenti di milioni e milioni di persone.
Nessuno conosce a fondo l’entità e la pericolosità del virus proveniente dalla Cina. Si attende con fiducia che il Coronavirus allenti la morsa e che l’allarme si ridimensioni, ma intanto le istituzioni sono corse ai ripari con tante misure di prevenzione e di contrasto per limitare al massimo i casi di contagio.
Proprio per queste ragioni stiamo vivendo uno di quei momenti cruciali della storia nei quali l’informazione deve dimostrare serietà e affidabilità e deve assolvere appieno alla sua funzione di divulgare notizie fondate, documentate, accertate e in grado di fornire all’opinione pubblica una rappresentazione il più possibile fedele dello stato delle cose, senza indulgere a sensazionalismi e spettacolarizzazioni improvvide.
Nell’era multimediale ai giornalisti è data la possibilità di dimostrare, tanto più in circostanze delicate come questa, il loro valore aggiunto, che deriva dall’applicazione dei principi deontologici dettati a garanzia del corretto esercizio del diritto di cronaca.
Si può affermare che negli ultimi giorni, accanto ad esempi di lodevole giornalismo, incentrato su puntuali e aggiornati riferimenti ai fatti di cronaca, si sono registrati casi di informazione urlata, spettacolarizzata. Una sorta di sensazionalismo terroristico, una spettacolarizzazione allarmistica fondata sull’utilizzo di un linguaggio tendenzialmente apocalittico. Non avremmo voluto leggere titoli di apertura con parole come “coprifuoco” o espressioni del tipo “Nord nella paura” o, peggio, “Come in guerra”. Per un pugno di copie in più o, con riferimento ai titoli di alcuni telegiornali, per una percentuale infinitesimale di share in più, si è sacrificato l’elemento della sobrietà e della continenza della forma espositiva, che segna un confine invalicabile tra la corretta informazione e l’informazione-spettacolo, tra il racconto della realtà e l’enfasi descrittiva.
Il giornalismo che dichiara di voler raccontare la verità e tutelare i diritti della personalità, tanto più rispetto a emergenze che hanno un impatto globale come quella sul Coronavirus, per farsi ascoltare e apprezzare dovrebbe rinunciare a sbraitare, a urlare, a spararla grossa. E dovrebbe altresì astenersi da tentazioni “professorali”, cioè dalla pretesa di pontificare e impartire lezioni di scienza, lanciando magari allarmi spropositati o, al contrario, minimizzando quelli che sono comunque rischi reali.
Est modus in rebus, verrebbe da dire con riferimento alle cronache sul Covid-19. Ma la tensione di queste ore sta facendo a pezzi ogni barriera protettiva della deontologia degli operatori dell’informazione, che con messaggi eclatanti pretendono di attribuire patenti di affidabilità a strutture sanitarie, medici, istituzioni pubbliche e private. Nulla di tutto questo ha a che fare con le regole di una buona informazione. Occorre riscoprire il valore della mediazione giornalistica, evitando di esacerbare un clima già surriscaldato. La strada maestra è mediare tra i fatti e l’opinione pubblica, senza drogare le cronache con alterazioni semantiche e sfoghi personali.
Si riscopra il valore della sobrietà e della pacatezza dei toni quando si diffondono notizie che attengono ad un bene primario come quello della salute. Sia la Carta di Perugia del 1995 che il Testo unico dei doveri del giornalista raccomandano a chi fa informazione di rifuggire da due eccessi ugualmente deprecabili: l’euforia miracolistica e l’allarmismo disfattista.
Ancor più all’epoca dei social questo valore aggiunto dell’informazione professionale può fare la differenza e segnare la vittoria del giornalismo di qualità. Sui social tutti pontificano, danno sfogo alle proprie pulsioni diffondendo contenuti non vagliati, non verificati, con post “acchiappaclic”. Ma per statuto i social non sono tenuti ad assicurare il nostro diritto ad essere informati. I giornali (anche quelli on line), le radio, le tv, vale a dire i media cosiddetti tradizionali, invece sì. E fin dai titoli e dalle anteprime devono offrire al proprio pubblico una rappresentazione equilibrata della realtà. Altrimenti poi non possono lamentarsi del fatto che sempre più gente li abbandoni perché li considera alla stregua di fonti generiche, improvvisate, non professionali.