La diffamazione a mezzo stampa è un rischio concreto per i giornalisti. La recente sentenza della Cassazione 2025 offre spunti cruciali su diritto di cronaca, verità e limiti all’uso della pena detentiva.
I Fatti al Vaglio della Suprema Corte
Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione, Sezione V Penale, riguardava il caso di un giornalista, autore di un articolo pubblicato il 10 gennaio 2017 sulla testata web “Reggio W Canale 14”. L’articolo era relativo a un’operazione investigativa sul narcotraffico a Reggio Calabria. Nell’ambito di questa notizia, il giornalista aveva definito un appuntato della Guardia di Finanza, come “in combutta coi Narcos”.
Per questo fatto, Meliadò era stato dichiarato responsabile penalmente e civilmente per il delitto di diffamazione ai sensi dell’art. 595 commi 2 e 3 del codice penale. Sia il giudice di primo grado che la Corte d’Appello di Reggio Calabria avevano confermato tale responsabilità. Il giornalista ha quindi proposto ricorso per cassazione.
Le Questioni Giuridiche Chiave
Il ricorso si fondava su quattro motivi principali:
1. Il mancato riconoscimento del diritto di cronaca come causa di giustificazione. L’imputato sosteneva di essersi limitato a riportare informazioni derivanti da una conferenza stampa della Procura e dall’ordinanza di custodia cautelare, e di aver utilizzato il “condizionale”.
2. L’insussistenza dell’elemento soggettivo (dolo) del reato di diffamazione, che richiederebbe l’uso consapevole di parole offensive. L’articolo si limitava a riferire di contatti telefonici tra presunti responsabili del narcotraffico e militari della Guardia di Finanza.
3. L’illegittima e sproporzionata irrogazione della pena detentiva, vietata alla luce della sentenza n. 150 del 2021 della Corte Costituzionale, in assenza di motivazione sulla presunta eccezionale gravità della condotta.
4. Il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (art. 62 bis cod. pen.), non considerando aspetti positivi come l’incensuratezza e la lunga carriera professionale corretta.
La Decisione della Corte di Cassazione: Verità e Responsabilità
La Corte di Cassazione ha ritenuto i primi due motivi (relativi al diritto di cronaca e al dolo) “generici… e manifestamente infondati”. Ha sottolineato l’evidente valenza lesiva della notizia diffusa, attribuendo a un membro delle forze di polizia (la Guardia di Finanza) una collusione (“combutta”) non vera con narcotrafficanti.
Il diritto di cronaca, garantito dall’art. 21 della Costituzione, trova un limite invalicabile nel rispetto della reputazione altrui. Per essere giustificato, il cronista deve rispettare tre condizioni: a) La verità della notizia pubblicata. b) L’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. c) L’obiettività e la continenza dell’informazione.
La Cassazione ha ribadito che la condizione fondamentale è la verità. Se i fatti narrati non corrispondono a quelli realmente accaduti, la causa di giustificazione è esclusa “in radice”. Anche l’ipotesi di errore putativo sulla verità (art. 59 comma 3 cod. pen.) è ammissibile solo se il giornalista dimostra di aver compiuto un rigoroso dovere di verifica delle fonti, esaminando e controllando attentamente le notizie, tanto più quando si attribuiscono comportamenti “gravi ed infamanti”. Nel caso specifico, nessuna ragionevole verifica era stata allegata dal giornalista.
Quanto all’uso del condizionale, la Corte ha precisato che esso non è sufficiente ad escludere la lesività. Espressioni “limpidamente insinuanti e capziose”, anche se al condizionale, inducono il lettore medio a credere alla effettiva corrispondenza a verità dei fatti raccontati, soprattutto in contesti come la cronaca nera. Questa modalità espositiva, accostando informazioni false a fatti veri, comunica la volontà di diffondere la notizia diffamatoria come effettiva e fondata. Anzi, l’uso del condizionale che evoca “una possibilità, se non una probabilità di accadimento”, in un contesto di racconto di fatti reali, può persino avere una “pregnanza offensiva persino più intensa” rispetto a frasi meramente dubitative o interrogative.
La Pena Detentiva dopo la Corte Costituzionale 150/2021
La Cassazione ha invece accolto il terzo motivo di ricorso, relativo all’illegittima irrogazione della pena detentiva. La sentenza ha ricordato che l’art. 13 della legge sulla stampa n. 47/1948, che prevedeva la pena congiunta della reclusione e multa per la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato, è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 150 del 2021.
A seguito di tale pronuncia, la pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. La Corte Costituzionale ha chiarito che l’art. 595, comma 3, cod. pen. (che prevede l’alternativa tra pena detentiva e multa) è costituzionalmente compatibile, ma l’opzione per la reclusione è limitata ai casi di “straordinaria gravità della condotta”. Tale gravità si individua, ad esempio, in discorsi d’odio, incitamento alla violenza, o campagne di disinformazione gravemente lesive, compiute nella consapevolezza della falsità dei fatti addebitati.
Nel caso in esame, la Cassazione ha rilevato che la sentenza impugnata, pur riprovando il fatto, non aveva adeguatamente motivato l’esistenza di questa “eccezionale gravità” che sola avrebbe giustificato la pena detentiva.
L’Epilogo del Ricorso per Cassazione: Prescrizione e Responsabilità Civile
Nonostante l’accoglimento del motivo sulla pena detentiva, la Corte ha dovuto rilevare, d’ufficio, l’intervenuta prescrizione del reato. Il termine massimo (sette anni e sei mesi) era infatti spirato il 10 luglio 2024, dopo la sentenza d’appello e prima del ricorso per cassazione.
Di conseguenza, la sentenza d’appello è stata annullata senza rinvio agli effetti penali per intervenuta prescrizione. Tuttavia, il ricorso è stato rigettato agli effetti civili, confermando quindi la responsabilità civile dell’imputato.
Principi Giuridici sulla Diffamazione nella Giurisprudenza di Cassazione
La sentenza 14196/2025 cristallizza alcuni principi fondamentali in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca secondo la Suprema Corte:
· La verità della notizia è il presupposto essenziale per la scriminante del diritto di cronaca; la falsità la esclude “in radice”.
· L’errore sulla verità può giustificare il fatto solo se frutto di rigorosa e approfondita verifica delle fonti, specialmente per accuse gravi.
· L’uso del condizionale o forme dubitative/interrogative non esclude la diffamazione se il contesto complessivo e la tecnica narrativa inducono il lettore a credere alla veridicità della notizia falsa e lesiva.
· La pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa è applicabile solo in casi di eccezionale gravità del fatto, come richiesto dalla Corte Costituzionale (sent. 150/2021).
Commento Finale dell’Esperto: l’Equilibrio Precario tra Libertà e Responsabilità
La pronuncia n. 14196/2025 della Cassazione Penale, pur definendo il caso in esame sulla base della prescrizione penale, offre un’ulteriore ed importante tessera nel complesso mosaico del rapporto tra libertà di stampa e tutela della reputazione. Da un lato, la Corte di Cassazione abbraccia in toto le statuizioni della Corte Costituzionale n. 150/2021, innalzando la soglia di gravità necessaria per irrogare la pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa: un segnale che la pena detentiva del giornalista deve rimanere una misura eccezionale, quasi estrema, riservata a condotte di particolare allarme sociale come l’odio o la disinformazione consapevole.
Dall’altro lato, però, la sentenza è estremamente rigorosa nel definire i paletti del diritto di cronaca come causa di giustificazione. Ribadisce con forza che la verità della notizia è non negoziabile e che il dovere di verifica delle fonti è assoluto, specialmente per le accuse di particolare lesività. Il condizionale non funziona come scudo protettivo se la tecnica espositiva complessiva mira a insinuare la veridicità di un fatto falso e lesivo.
Questo duplice approccio pone una sfida per il giornalismo investigativo e di denuncia. Se da un lato il rischio di finire in carcere per diffamazione si riduce drasticamente, dall’altro lato, la pur sacrosanta esigenza di tutela della reputazione viene affermata attraverso criteri (verità assoluta, onere di verifica rigorosissimo, inefficacia del condizionale come garanzia) che rendono la scriminante del diritto di cronaca difficilmente applicabile in caso di errore sulla verità. Questo potrebbe portare a un “effetto chilling” sul giornalismo, spingendo a un eccesso di prudenza per evitare condanne civili e penali (seppur con pene non detentive) anche di fronte a notizie di potenziale interesse pubblico ma di difficile verifica assoluta. La sentenza ricorda che, nel bilanciamento tra libertà e responsabilità, il peso della verità e della verifica ricade in modo significativo sulle spalle del cronista.
di Daniele Concavo – Avvocato del Foro di Milano con particolare esperienza nel mondo del Fitness e nella tutela della reputazione aziendale e personale.
L’Avv. Concavo è Cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della comunicazione d’impresa con il Professore Ruben Razzante all’Università Cattolica di Milano.
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