L’egosurfing, ovvero il gesto di cercare il proprio nome o il proprio sito web su un motore di ricerca, per valutare la propria presenza online, è diventato la versione 3.0 dello specchio. Controlliamo come appariamo, cosa è visibile, cosa sfugge: monitoriamo la nostra identità online.
Non è più solo un esercizio di curiosità o vanità: è un’azione strategica di vigilanza personale.
Nell’era della sovraesposizione digitale, ogni traccia lasciata sul web (post, commenti, articoli, vecchi profili dimenticati) contribuisce a comporre il nostro “io digitale”.
Sapere cosa circola sul proprio conto significa avere un minimo di controllo su reputazione, immagine pubblica e persino sulle proprie opportunità professionali. Chi assume o chi investiga per curiosità, spesso inizia da lì: una ricerca online.
L’egosurfing riflette un bisogno crescente di protezione dell’identità e impone una riflessione più ampia sul diritto all’oblio, sulla gestione del profilo pubblico e sul ruolo degli algoritmi nel definire la nostra immagine.
Ma attenzione, controllare non basta. Bisogna anche sapere come intervenire, come segnalare contenuti scorretti o richiedere la rimozione di dati. È qui che l’educazione digitale fa la differenza.
Perché se oggi “essere online” è inevitabile, decidere come esserlo è una responsabilità.
Tra un post dimenticato e un tag imbarazzante, non si tratta solo di reputazione. Si tratta di identità, che deve essere monitorata con la stessa serietà con cui difendiamo i nostri documenti o i nostri dati bancari.
Perché l’informazione che ci riguarda non è solo nostra: è accessibile, indicizzabile e, spesso, in balia di chi la cerca meglio di noi.
A.C.
Diritto dell’informazione
“Diritto dell’informazione: la bussola per orientarsi tra notizie e giurisprudenza.”
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