Di Revenge Porn si sente comunemente parlare sui media, in televisione, sui giornali, eppure molto spesso di questo fenomeno si ignorano sia la natura che la gravità.
Il termine Revenge Porn, infatti, è stato mediaticamente coniato nel mondo anglosassone per descrivere in maniera immediata e semplicistica quello che è il fenomeno della condivisione non consensuale di materiale intimo sessualmente esplicito, che sul piano concreto, va ben oltre il concetto di vendetta e prende le distanze da quello di “pornografia”.
La diffusione di materiale intimo senza previo consenso non è altresì declinabile come sola vendetta e non è solo un attacco alla sfera intima e personale di un individuo, ma una vera e propria forma di violenza di genere.
Offrire una descrizione univoca della violenza di genere è quasi impossibile considerando la complessa natura del fenomeno, ma, da un punto di vista giuridico, pendendo come riferimento la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (Istanbul 2011), essa è definibile come “qualsiasi discriminazione dei diritti umani, una forma di discriminazione contro le donne, che comprende qualsiasi violenza contro una donna in quando tale e che provochi danni di natura fisica, sessuale, psicologica, economica, comprese le minacce di compiere tali atti”.
Abitualmente, e proprio in ragion del fatto che è soprattutto verso di esse che si esercitano tali violenze, quando si tratta di “violenza di genere” ci si riferisce appunto ad una violenza nei confronti di una donna e questo vale anche nel caso della condivisione non consensuale che, prendendo come riferimento la definizione di cui sopra, può essere inquadrata nell’ambito delle violenze di natura psicologica perpetrate attraverso l’uso della rete.
Nonostante non esista tutt’oggi a livello europeo una risposta unitaria al problema della condivisione non consensuale di materiale intimo, sono molti gli stati che hanno introdotto una legislazione concernente le forme di violenza virtuale contro le donne e le ragazze.
Tra questi si annovera anche l’Italia, che pur rispetto ad altri Paesi membri, ha introdotto il reato di diffusione illecita di immagini e video sessualmente espliciti all’art.612 ter c.p solo nel 2019 con la Legge 69, con un ritardo di alcuni anni.
La legge prevede che “chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video sessualmente espliciti, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con una multa da euro 5.000 a euro 15.000”.
Si considerano poi aggravanti di reato “se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato o da persona che è stata legata da una relazione affettiva alla persona offesa..”. Sono considerate egualmente aggravanti di reato anche se i fatti sono commessi a danno di un minore, o di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o a danno di una donna in stato di gravidanza.
La legge prevede anche che chiunque, compresi i minori, abbia fondato motivo di ritenere che le sue immagini siano state diffuse senza consenso può rivolgersi con un reclamo o una segnalazione al Garante della Privacy che entro 48 ore dalla richiesta provvede ai sensi dell’art 58 del regolamento UE 2016/679.
Nonostante la volontà da parte del legislatore italiano quindi di tutelare le vittime e di punire gli aggressori dimostrando un’assunzione di consapevolezza, la condivisione non consensuale di materiale intimo all’interno della rete lungi dall’essere un problema superato.
A rendere difficile l’arginamento della diffusione non consensuale primariamente la natura stessa della rete da cui è molto difficile che un contenuto, una volta immesso, venga rimosso definitivamente.
Se certo oggi è possibile richiederne la cancellazione e se anche gli stessi Provider possono e devono attivarsi affinché questo avvenga, anche per non essere considerati essi stessi imputabili ai sensi degli arti. 14-17 del D.lgs 70/2003, attuativo della direttiva 2000/31/CE, una volta condiviso un contenuto, seppur ne segua la rimozione, può essere già stato scaricato o ricondiviso all’interno di chat e gruppi privati che è molto difficile raggiungere.
La seconda grande questione che rende difficile combattere la condivisione non consensuale ha a che fare, come per tutto ciò che concerne la violenza di genere, con problemi di natura prettamente culturale e sociale.
Lo scopo della condivisione non consensuale non è tanto quello di vendicarsi, ma rappresenta quanto più la volontà di colpire la donna in quanto donna, di offendere la sua sessualità.
Nello sviluppo di forme di violenza di genere giocano infatti un ruolo cruciale i dictat sociali e archetipali che definiscono la relazione tra uomo e donna come una relazione impari, dove il primo mostra ,o deve mostrare, una condizione di superiorità nei confronti della seconda.
Per superare i suddetti dictat e consapevolizzare sull’origine e la pericolosità della violenza di genere sarebbe necessario, almeno in Italia, lavorare all’implementazione di un’educazione sessuale che è pressoché assente o per lo più limitata ad aspetti biologici.
L’Italia è infatti uno degli unici Stati Membri in cui l’educazione sessuale non è obbligatoria nonostante i diversi tentativi, a partire dagli anni ’90, di introdurla definitivamente nel sistema scolastico e nonostante l’impegno previsto dalla Convenzione di Istanbul di “mettere a punto una politica nazionale di alta qualità in materia di salute sessuale e riproduttiva in collaborazione con le organizzazioni pluraliste della società civile…”.
Per arginare fenomeni di violenza di genere, come quello della condivisione non consensuale, sarebbe quindi opportuno lavorare sulla costruzione di una cultura del consenso che può passare solo attraverso un’attiva educazione sessuale, che oggi, in maniera imprescindibile, si lega anche ad un educazione all’uso degli strumenti digitali.