Durante il mese di novembre, noi studenti del Corso di Laurea Magistrale CIMO, abbiamo avuto l’onore e il piacere di ospitare il giornalista genovese, nonché esperto di “web journalism”, Luca Tremolada presso “Università Cattolica del Sacro Cuore” di Milano.
La sua preziosa testimonianza ha preso il via con un pensiero estremamente incisivo, secondo cui il mestiere del giornalista è quello di raccontare vicende nella maniera meno accademica possibile. Una frase apparentemente scontata, ma quantomai attuale dato che viviamo una realtà i cui livelli di interconnessione sono elevatissimi e velocissimi. Ecco, quindi, che il giornalista deve essere in grado di attirare immediatamente l’attenzione del lettore attraverso parole accattivanti, frutto di uno stile unico. Al giorno d’oggi, infatti, l’informazione è facilmente raggiungibile da chiunque poiché, con l’avvento dei social media, si è drasticamente ridotto il delta-time tra divulgazione e ricezione della notizia stessa.
Per comprendere quanta evoluzione ci sia stata nel corso dell’ultimo ventennio, Tremolada ci ha fornito un dato alquanto significativo: fino al 2000, il 75% dell’informazione totale era registrata su un supporto fisico e questo voleva dire che, per comprendere cosa stesse accadendo nel mondo, si era costretti a vedere la tv o il giornale cartaceo.
Tuttavia, grazie alla diffusione della banda larga, avviene una vera e propria esplosione, tale per cui le notizie diventano accessibili ovunque e le grandi testate giornalistiche inaugurano siti web di loro proprietà.
Successivamente, Tremolada ha spiegato come i social network abbiano disintermediato l’informazione giornalistica. Prima del 2000, infatti, il modello dei paesi sviluppati prevedeva che fosse il giornalista a mettersi in contatto col direttore di un giornale di prestigio affinché rilasciasse un’intervista: in questo modo la politica poteva riferire ai cittadini.
I social, però, hanno messo in discussione questa sorta di catena, tant’è che un politico come Matteo Salvini produce costantemente informazioni e comunica col proprio elettorato attraverso Twitter e Facebook in maniera pressoché istantanea.
Il discorso del giornalista si è poi allargato alla generazione e diffusione dei dati all’interno della rete. Noi studenti abbiamo avuto modo di comprendere come dagli anni ‘90 in poi, a causa del movimento di hacker che ha animato la Silicon Valley, sia passata una filosofia di condivisione che ha cambiato il mondo: basti pensare, per esempio, alla tecnologia Android come “open source”, ossia un modello free in cui gli schemi e i codici dei micro-compressori vengono condivisi con tutta la comunità scientifica. Ciò ha portato, in base anche agli strumenti che utilizziamo, allo stato tecnologico che abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni: per esempio, il passaggio da Internet al “Cloud Computing” oppure dal Nokia allo Smartphone, ha fatto sì che venissero generati miliardi di dati nella rete, rilasciati da aziende in formato aperto e giornalistico.
In tal modo, i giornalisti possono andare a guardare i dati che vengono prodotti, ma al tempo stesso occorre che i cittadini vengano tutelati.
Tremolada, perciò, ci ha parlato della Legge Foia, in tema di trasparenza della Pubblica Amministrazione. Quest’ultima è chiamata ad esserlo nei confronti del cittadino e deve farlo con la richiesta di accesso ai propri dati. Il giornalista ha usato il termine “rivoluzione copernicana” per indicare lo straordinario cambiamento, avviatosi già 5 anni fa negli USA durante la Presidenza Obama e giunto in Italia solamente l’anno scorso. La legge prevede che sia il giornalista sia il cittadino possano dirigersi in Comune, chiedendo di accedere ad una serie di dati che l’Amministrazione deve fornire (ad esempio, la presenza di amianto nelle scuole pubbliche). La rivoluzione sta nel fatto che, non solo la Pubblica Amministrazione stia diventando trasparente, ma anche il privato. C’è da dire, comunque, che molte aziende hanno deciso di giocare d’anticipo, mettendo a disposizione di tutti i propri dati.
Il tema della trasparenza coinvolge tutti, giornalisti compresi, i quali devono prestare attenzione non soltanto su ciò che scrivono sui giornali, ma anche sui social. Questi, infatti, possono eventualmente dissentire da quello che viene riferito all’interno della testata per cui lavorano, ma non possono in alcun modo insultare il loro datore di lavoro. Luca Tremolada, infatti, ci ha spiegato che in questi casi entrano in gioco sia l’art. 21 della Costituzione [«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…], sia l’art. 2 del Codice Deontologico dei Giornalisti, che regola i rapporti tra giornalisti e social. Pertanto, è necessario che ci sia coerenza tra la libertà che viene manifestata nel rapporto fiduciario col proprio datore di lavoro e la reale manifestazione del proprio pensiero sui social, altrimenti sia il giornale sia il giornalista stesso perdono di credibilità.
In seguito, la testimonianza si è incentrata sul tema dei “big data” e il loro impatto sostanziale sulla privacy delle persone. Oggigiorno, è possibile accedere ad una grande mole di dati che consente alle aziende di prevedere un certo andamento. Se, per esempio, un’azienda di biscotti potesse accedere ai dati sulla dieta di un paese lontano e incrociasse il consumo di biscotti sia nel paese in cui questa opera sia in quello di altri paesi, potrebbe decidere se esportare la sua produzione.
È possibile, perciò, prendere i propri dati e unirli a quelli che emergono dalla rete volontariamente o meno. Questo tema ha un correlato diretto nella ricerca e nello studio della scienza.
A tal proposito, Tremolada ha citato lo scienziato ungherese Laszlo Barabasi, autore di un esperimento molto interessante: sono state raccolte 150 anni di pubblicazioni di articoli scientifici di “Nature”, la rivista scientifica più importante del mondo, e successivamente interrelati tramite algoritmi di ricerca. Inoltre, Barabasi ha connesso tutte le volte in cui un singolo articolo citasse un altro campo. Volendo compiere un parallelismo, così come lo studio del DNA sta modificando completamente la ricerca, così gli esseri umani costituiscono una cellula ematica in un vetrino di sangue. Tutti noi, quindi, veniamo costantemente tracciati dai nostri cellulari e, tramite le nostre ricerche, forniamo tutta una serie di dati prontamente registrati dalla rete. Queste info non riguardano solo la sfera dell’intrattenimento, ma anche quella della nostra salute, aspetto che interessa molto ad un datore di lavoro.
In un certo senso, veniamo quindi copia-incollati, quasi fossimo parte integrante del packaging di un prodotto. Negli ultimi 10 anni, non solo quello che diciamo, ma anche tutte le nostre info, dagli esami sullo stato di salute ai braccialetti che monitorano la corsa e il sonno, fino ad arrivare ai nostri consumi alimentari, sono diventati pacchetti di dati, gran parte dei quali forniti da noi volontariamente.
È pur vero che sui social esiste lo pseudo-anonimato. Certo è che, se un soggetto dovesse commettere un reato, la giustizia avrebbe comunque gli strumenti per risalire al colpevole, a prescindere dal nome adottato: è sufficiente l’indirizzo IP.
L’identificabilità attraverso l’indirizzo IP consente alla Polizia Postale di intervenire efficacemente, visto che circola un’enorme mole di dati nel web, tale che potrebbe diventare oggetto di violazione della privacy.
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