“Hanno bucato il Quirinale!”. “Sono trapelati i numeri della Premier!”. Tra un post allarmato e un titolo d’effetto, la notizia corre.
Negli ultimi giorni si è diffusa online la notizia secondo cui i numeri di telefono del Presidente Mattarella e della Premier Meloni sarebbero stati sottratti da un database tramite un attacco informatico. Ma i riscontri dicono tutt’altro. Non si è trattato di un vero furto informatico, bensì di una raccolta di dati già disponibili online, aggregati da servizi di lead generation.
I dati sono stati pescati da piattaforme come Lusha, che utilizza informazioni recuperate da profili pubblici e rubriche condivise, spesso per finalità commerciali. Nessun sistema informatico istituzionale è stato violato. Lo conferma anche l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, che ha smentito qualsiasi attacco ai danni delle infrastrutture pubbliche.
Nel frattempo, il Garante per la protezione dei dati personali ha aperto un’istruttoria, volta a chiarire l’origine e la liceità della raccolta e dell’uso di quei dati.
Questo caso è l’ennesima dimostrazione che oggi la vera vulnerabilità è il nostro modo di reagire: pur non avendo basi tecniche solide, ha allarmato l’opinione pubblica, dimostrando quanto sia facile costruire una narrazione ingannevole quando si nominano figure istituzionali di primo piano, come il Presidente della Repubblica.
La lezione è chiara: non tutto ciò che fa rumore è una vera minaccia. Proteggere le istituzioni passa anche dalla responsabilità con cui si comunica. Serve maggiore attenzione nel verificare le fonti euna comunicazione più trasparente. Perché, in materia di sicurezza, anche le parole possono fare danni.
A.C.
Diritto dell’informazione
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