Un’incriminazione per diffamazione aggravata può scattare anche per un semplice like. Se il post a cui si mette il “mi piace” presenta dei contenuti offensivi, o, addirittura, razzisti e/o discriminatori, l’attività di un utente potrebbe essere considerata penalmente rilevante e, in caso di querela presentata dalla persona offesa, potrebbe esserci il rinvio a giudizio con l’accusa di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3 c.p. Si segnalano due casi tra il 2017 e il 2018. Il primo, presso il Tribunale di Brindisi, riguarda 7 persone accusate di aver apprezzato un post che accusava il sindaco e alcuni dipendenti comunali del comune San Pietro Vernotico (Brindisi) di essere “fannulloni e assenteisti”. Il secondo attiene alla contestazione, da parte della Procura di Genova, ad alcuni soggetti che apposero il like ad un post dal contenuto razzista nei confronti dell’etnia rom.
Alcune sentenze hanno punito i responsabili di diffamazione mediante altri social network. La tutela della reputazione va assicurata anche su Instagram. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 7 novembre 2017, che ha visto condannare l’Islanda (ricorso n. 24703/15). A rivolgersi ai giudici internazionali è stato un blogger e scrittore islandese, poi prosciolto, accusato di stupro. Su Instagram era comunque stata diffusa una sua immagine, frutto di una manipolazione della copertina di un giornale, accompagnata da una frase offensiva che lo definiva “stupratore”. I giudici di Strasburgo hanno chiarito che il diffamato poteva anche aver assunto una condotta provocatoria, ma che ciò non giustificava l’accusa di un atto criminale senza un supporto “concreto”.
Possono valere una condanna per diffamazione alcuni epiteti offensivi pronunciati in chat WhatsApp contro una minorenne non presente nella chat stessa. Esclusa l’imputabilità del ragazzo sotto processo, che all’epoca dei fatti non aveva neanche 14 anni, ma impossibile ipotizzare un proscioglimento nel merito, perché lo scambio di messaggi on-line era innegabilmente offensivo. È quanto ha sentenziato la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 7904 del 21 febbraio 2019).