Prima dell’emergenza, stando alle cifre dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, in Italia già operava in smart working il 58% delle grandi imprese, per un numero complessivo di 570.000 lavoratori. Tra il 2018 e il 2019 c’è stato un incremento del 20%, che ha riguardato anche le pubbliche amministrazioni.
Quando si lavora a distanza, senza obbligo di presenza in ufficio, c’è maggiore flessibilità, contano i risultati anziché le ore passate alla scrivania, si decongestiona il traffico (si riduce anche lo smog), i mezzi pubblici non sono presi d’assalto e la qualità della vita dei lavoratori cresce, perché l’attività professionale si concilia maggiormente con la vita privata.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Lo smart working rende più arduo il coordinamento tra lavoratori, che invece risulta più agevole quando si è tutti nello stesso ambiente fisico, e questo rischia di incidere anche negativamente sulla produttività. Inoltre, l’accesso ai dati aziendali da remoto fa crescere enormemente i pericoli per la sicurezza, con furti di informazioni e esose richieste di riscatto, e la necessità di potenziare gli strumenti tecnologici e assicurativi a protezione dei sistemi operativi.