L’obiettivo di tale impianto sarebbe quello di monitorare costantemente i movimenti dei condannati, al fine di alleggerire la pressione sul sistema penitenziario. La proposta ha suscitato l’attenzione di esperti di diritto penale, di protezione dei dati personali e di diritti fondamentali, che hanno subito sostenuto l’illegittimità giuridica della proposta e la sua incompatibilità con i valori costituzionali.
L’inserimento del GPS, proposto anche nell’ottica di una sorveglianza preventiva, permetterebbe di monitorare il soggetto anche al di fuori del perimetro carcerario, andando a rappresentare così un permanente controllo del corpo. Il sistema penale britannico prevede già l’uso di dispositivi elettronici per soggetti in libertà vigilata, detenuti a fine pena e per coloro agli arresti domiciliari, e tale monitoraggio è disciplinato da normative specifiche che invece, almeno per il momento, non sembrano essere presenti per il tracciamento endocorporeo.
Il sistema di tracciamento sottocutaneo andrebbe così a violare tre articoli della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: l’Art.3 sul divieto di trattamenti inumani o degradanti, l’Art. 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, e l’Art. 5 sul diritto alla libertà e alla sicurezza personale. Oltre che dal punto di vista legale e morale, l’impianto dei GPS risulta inoltre essere una questione spinosa anche per quanto riguarda l’ambito economico.
È bene infine ricordare che nel diritto penale contemporaneo la pena deve essere proporzionata, temporanea e finalizzata, almeno in parte, alla rieducazione del condannato, e che per tanto l’introduzione di un dispositivo sottocutaneo rischierebbe di rendere la condanna incompatibile con la funzione reintegrativa della stessa. La giustizia, per rimanere tale, deve rimanere umana, ed è proprio per questo motivo che risulta sempre più pressante la necessità di porre limiti e di ricordare che il corpo degli esseri umani non può, e non deve, diventare mezzo di lucro.
S.B.
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