La blockchain nella lotta contro il coronavirus. Anche no.

Ormai da qualche anno si sente parlare di blockchain come soluzione digitale adatta per risolvere ogni problema. Dalla filiera agroalimentare alle fake news, dalla logistica alla proprietà intellettuale, dalla gestione immobiliare ai sistemi di voto.

Questa tecnologia sembra essere una panacea per ogni problema anche se, a distanza di oltre 10 anni dalla sua invenzione, non pare aver avuto un reale impatto al di là del mondo fintech. E anche laddove un protocollo blockchain è stato concretamente impiegato, si è spesso trattato di un’implementazione effettuata più che altro a fini marketing anziché per rispondere ad una reale esigenza applicativa[1].

A questo punto, nella lista di applicazioni blockchain, considerati i tempi che stiamo vivendo, non poteva mancare anche l’emergenza sanitaria del COVID-19. Ma vediamo se e in che termini si può davvero utilizzare la blockchain per combattere il coronavirus.

Il concetto base di una tecnologia a registri distribuiti è, appunto, la distribuzione dei registri, ovvero la duplicazione presso un network di nodi – cioè di server collegati tra loro – di copie conformi di uno stesso registro contenente dati di qualsiasi natura (tipicamente di natura contabile, come nel protocollo bitcoin).

Come può un tale sistema di condivisione e ridondanza delle informazioni aiutare a contrastare l’infezione in atto è un mistero. Non c’è dubbio, infatti, che condividere le informazioni sia utile a mappare i contagi o ad accelerare la ricerca scientifica di un vaccino, ma ciò già accade senza bisogno di ricorrere alla blockchain. Né la blockchain garantisce in alcun modo che le informazioni caricate su di essa siano corrette, non più almeno di un qualsiasi altro gestionale tradizionale che funzioni come un repository comune di informazioni.

Ciò che la blockchain aggiunge a tutto questo è semmai la garanzia che i dati una volta caricati sul sistema non siano manipolati (ovvero siano molto difficilmente manipolabili). Ma non mi pare che il rischio di alterazione fraudolenta dei dati sia una priorità in ambito di ricerca del vaccino e di prevenzione dei contagi.

Semmai il rischio è l’accesso non autorizzato a tali dati; la loro riservatezza. E su questo punto nulla può fare la blockchain che, anzi, ha una architettura tendenzialmente distribuita che prevede quindi la replicazione dei dati presso un numero indefinito di nodi.

Concludendo, temo che si parli un po’ a sproposito di blockchain anche con riguardo ad ipotetiche misure di cura e tracciamento dei contagi.  Non c’è dubbio che se le nostre strutture sanitarie avessero già costituito un network blockchain per la gestione del fascicolo sanitario elettronico ciò avrebbe dei vantaggi in termini di gestione ed efficienza del sistema sanitario nazionale. Ma da qui a dire che la blockchain può limitare i contagi ce ne vuole.

 

[1] Circostanza ben nota da chi conosce la blockchain, non solo come funziona, ma soprattutto cosa fa. Secondo una recente ricerca di Osservatorio Smart Food del Politecnico di Milano (qui) oltre il 60% delle aziende che hanno investito in DLT hanno dichiarato di farlo per ragioni di mero marketing. Solo il restante 40% – sempre che siano vere le loro dichiarazioni e non siano anche esse una forma di marketing – lo hanno fatto per una vera esigenza tecnologica.