La vita del marchio appesa ad un Influencer

Il marketing di influenza, o “influencer marketing”, continua ad imperversare nella scena globale, in special modo durante una pandemia di dimensioni inedite dove la realtà virtuale – a causa di misure di pubblico interesse volte ad inibire la libertà personale – è diventata, se non il migliore, l’unico dei mondi possibili.

Dai numeri raccolti dall’agenzia “Statista” (www.statista.com), il 2020 segna il boom del giro d’affari del marketing di influenza a livello mondiale, rappresentato da 2.3 miliardi di dollari, ad oggi, in continua ascesa.

La sussistenza degli Influencers è strettamente e commercialmente legata al “prodotto”: sia esso prodotto di natura fisica oppure prodotto immateriale ovvero prodotto generato da software (piattaforma elettronica, sito web).  In altri termini, nel commercio non esisterebbe alcun Influencer senza “marchio” e “brand”. Infatti, è a questi ultimi nonché ai generosi investimenti da essi veicolati, che gli operatori del mercato digitale, inclusi gli Influencer, devono le loro fortune.

A tal proposito, esistono una serie di norme a tutela dei marchi “rinomati”, tra cui l’art 8.5 del Regolamento (UE) 2017/1001 che prevede la tutela del marchio per categorie merceologiche ulteriori rispetto a quelle per cui  ha già ottenuto la registrazione a condizione che sia fornita prova di rinomanza.

Un esempio conosciuto nel settore della proprietà industriale è quello del marchio NASDAQ operanti principalmente nella gestione di affari finanziari (canale merceologico identificato dalla classe 36 dell’Accordo di Nizza del 1957). La Nasdaq Stock Market si è opposta con successo alla registrazione del marchio NASDAQ per “caschi protettivi” nella classe 9 grazie alla rinomanza del marchio NASDAQ, provata in sede di Corte di Giustizia UE. (Vd. Causa T-47/06, Tribunale di primo grado UE, Antartica / Uami [EUIPO] Nasdaq Stock Market).

Solitamente, al fine di stabilire la rinomanza è richiesto il deposito massiccio di prove d’uso volte ad accertare lo status di “marchio rinomato” ovvero il forte dispiegamento di prove documentali volte ad acclarare che il marchio abbia acquisito notorietà attraverso l’uso e, pertanto, qualunque marchio successivo identico o simile – sebbene in categorie merceologiche diverse – non sia legittimato ad ottenere registrazione. (T-47/07 ut supra dove “Nasdaq” per caschi protettivi viene rifiutato sulla base della notorietà di NASDAQ per servizi finanziari.)

In una sentenza avveniristica molto recente relativa alla procedura di Opposizione EUIPO, (n. B3018036, la cui sentenza è confermata dalla Commissione dei Ricorsi – R1437/2019-5), la società danese “Bansk Farmaceutisk Industri” riesce a provare la rinomanza del marchio “SugarBearHair” sulla base di elementi e prove nuovi rispetto alle decisioni anteriori.

La stessa divisione di opposizione stabilisce che “la reputazione implica una soglia di conoscenza che viene raggiunta solo quando il marchio anteriore è noto da una parte significativa del pubblico rilevante per il beni o servizi che copre”. Fino ad oggi la notorietà era raggiunta e provata da uno sforzo probatorio e documentale notevole.

In questo caso di recente decisione, si tratta di una battaglia processuale a suon di follower, Influencer, statistiche Instagram nonché “l’Imperatrice degli Influencer” il cui nome fa tremare i polsi financo all’Esaminatore designato: Kim Kardashian in persona – o meglio, in account –  che, dall’alto dei quasi 170 milioni di seguaci, detta le leggi del marketing delle influenze a livello mondiale e, probabilmente – da ora in poi – la prassi dell’Ufficio Europeo della Proprietà Industriale.

La Signora Kardashian non è nuova all’essere coinvolta – vista la sua indiscussa popolarità nei social media – nei botta e risposta tra i big dei beni di largo consumo.

L’ufficio marketing australiano di Ikea aveva già tratto beneficio dalla fama dei “Kardashian-West family”, trollandoli su Twitter in merito al design di un letto per il loro fortino di Hidden Hills in California ispirato al video musicale “Famous” che vedeva la coppia, ed altri 11 personaggi celebri, nel medesimo talamo da tredici posti. Da qui il “tweet” in risposta e i vari meme che ne sono seguiti.

Nel caso di specie, in sostituzione di esemplari di fatture, documenti ufficiali di vendita e canali di distribuzione, prove documentali di spese in campagne tradizionali, riproduzioni di strategie di marketing, indagini demoscopiche, presenza effettiva del prodotto nei negozi, accesso diretto e fisico del prodotto in favore del consumatore –  al fine di provare la rinomanza di cui all’art. 8 (5) RMUE –  la società Bansk Farmaceutisk Industri, deposita, inter alia, quanto segue:

Pertanto, alla luce della assoluta carenza di prove documentali e prove “tradizionali”, l’Esaminatore EUIPO conferma il valore probatorio di quanto depositato che, agli occhi di un professionista medio nel settore IP, sarebbe definito – a dir poco – “aleatorio”.

Infatti, nella decisione coraggiosamente emessa si legge: “le prove presentate dimostrano che il pubblico di riferimento è stato ampiamente esposto ai marchi anteriori in questione in relazione al  mercato rilevante […] [e]  – sebbene tali prove siano carenti di alcuni elementi su cui si fa generalmente affidamento per accertare il livello di riconoscimento di un marchio […]  – si può dedurre che i marchi anteriori sono stati oggetto di uso intensivo e sono generalmente noti nei pertinenti [mercati di riferimento].

Non da ultimo, entrando nel merito del marketing delle influenze, nonostante non sia chiaro il giro d’affari che la società danese abbia generato attraverso le iniziative di marketing digitale per il prodotto SugarBearHair, viene asserito che “anche in assenza di cifre precise relative agli importi investiti nelle citate iniziative di marketing sui social media, considerata la popolarità delle celebrità coinvolte […] non c’è spazio per dubitare che siano sostanziali.

Premesso che la struttura probatoria trova sostanzialmente ed esclusivamente supporto sul “social media marketing”, il coraggio della decisione di opposizione si palesa nei termini della “carenza di dubbio alcuno” circa l’efficacia ai fini della rinomanza ex art. 8(5) RMUE. Tuttavia, si tratta di una decisione isolata – sebbene confermata dalla Commissione dei Ricorsi – nonché soggetta ad appello davanti al Tribunale di Primo Grado UE (CGUE).

Nel frattempo, in modo consapevole o meno, pullulano le iniziative di aziende che impiegano influencer per svariate ragioni. E – se in questo caso, Kim Kardashian & Co sono stati determinanti per le due decisioni amministrative “SUGARBEARHAIR” – molte aziende potrebbero utilizzare lo stesso criterio, per esempio, per sanare la eventuale carenza di capacità distintiva, in particolare, ex art. 7.1(b) RMUE.

A tal proposito, è emblematico l’esempio di VETEMENTS – segno carente di capacità distintiva in UE poiché indica e descrive immediatamente il prodotto (abbigliamento) – e, come ovvio, la dicitura ABBIGLIAMENTO per contraddistinguere “abbigliamento” non può fungere prima facie da segno distintivo, da marchio. Chissà se un influencer ne salverà le sorti in termini di distintività.

Purtroppo, Paris Hilton – con un “magro” bottino di 12 milioni di seguaci – sembra essere lungi dal costituire una prova solida di acquisizione “ex post” di capacità distintiva nonostante la società titolare del marchio VETEMENTS cerchi di ammaliarla con un “I love Paris…Hilton”.

Dovremmo probabilmente auspicare l’impugnazione della sentenza de qua davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Infatti, solo così il coraggio o avvenirismo delle sentenze in favore della Bansk Farmaceutisk Industri non sarebbe circoscritto ad una decisione amministrativa di Opposizione e Commissione dei Ricorsi EUIPO ma fungerebbe da faro per le giurisdizioni civili e amministrative in materia di Proprietà Industriale di tutta l’Unione Europea.