L’ALGORITMO DELLA CONSAPEVOLEZZA

Nel vasto e mutevole mare del Web, la linea di demarcazione tra libertà di espressione e tutela della reputazione è da sempre un confine labile, teatro di equilibri precari e contenziosi senza fine. Chi presidia i portali digitali? E, soprattutto, quando il blogger diventa responsabile per i contenuti non suoi?

La Suprema Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 17360/2025, pronuncia un verdetto illuminante e cruciale per la giurisprudenza in materia di diffamazione online, ribadendo il perimetro della responsabilità dell’hosting provider (e, nella specie, del blogger) e innalzando, seppur con un delicato bilanciamento, lo standard di diligenza atteso nel rimuovere i contenuti illeciti di terzi. Un principio che non solo consolida gli orientamenti pregressi, ma che impone una nuova riflessione sull’auto-regolamentazione e la vigilanza nel ciberspazio.

Il Cuore della Controversia: dal Blog alla Cassazione, un Percorso ad Ostacoli.

La vicenda trae origine dalla domanda di risarcimento danni avanzata da un soggetto contro il gestore di un “blog” telematico, accusato di non aver tempestivamente rimosso commenti ingiuriosi pubblicati da utenti terzi. In primo grado, il Tribunale di Siena aveva rigettato la domanda, decisione poi confermata dalla Corte d’Appello di Firenze, che aveva dichiarato cessata la materia del contendere per la richiesta di rimozione, ma aveva negato la responsabilità per il risarcimento.

Il ricorso in Cassazione si è focalizzato su due nuclei problematici principali: la pretesa responsabilità del blogger per la pubblicazione originaria dei commenti diffamatori e, soprattutto, la sua responsabilità per l’omessa rimozione di tali contenuti una volta venuto a conoscenza della loro illiceità. Se sui primi due motivi la Suprema Corte ha confermato l’infondatezza, ma è sul terzo, relativo alla rimozione, che si è giocata la partita decisiva, ribaltando le statuizioni della Corte territoriale.

Analisi Tecnico-Giuridica: La “Conoscenza” Rimodulata del Blogger ed il suo Obbligo di Reagire.

La Cassazione, nel trattare la responsabilità per la pubblicazione, ha ribadito che l’onere di provare il ruolo di “hosting provider attivo” (ovvero di chi seleziona e controlla i messaggi) spetta all’attore danneggiato. La regola generale, infatti, è quella dettata dall’art. 17 del D.Lgs. n. 70/2003, che esonera l’hosting provider da un obbligo generale di sorveglianza o di ricerca attiva di attività illecite sui contenuti trasmessi o memorizzati.

Il vero punto di svolta, tuttavia, riguarda l’omessa rimozione. La Corte d’Appello aveva sostenuto che l’obbligo di rimozione per l’hosting provider sorgesse esclusivamente a seguito di una comunicazione delle autorità competenti in ordine al carattere illecito dei commenti (“conoscenza qualificata”). In tale ottica, la mera conoscenza di fatto, acquisita in altro modo (ad esempio, tramite la segnalazione della parte lesa), non sarebbe stata sufficiente.

La Suprema Corte ha invece cassato questa interpretazione, ritenendola non conforme sia alla giurisprudenza penale che civile pregressa. L’articolo 16 del D.Lgs. 9 aprile 2003 n. 70, pur prevedendo una non responsabilità per le informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, aggiunge una condizione fondamentale: che il prestatore “non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione”.

Il nodo ermeneutico risiedeva nell’interpretazione della successiva lettera b) dello stesso art. 16, che specifica che il prestatore deve agire immediatamente per rimuovere le informazioni “su comunicazione delle autorità competenti”. La Corte d’Appello aveva letto questo inciso come una limitazione, ma la Cassazione chiarisce che l’obbligo di rimozione sorge per l’hosting provider nel momento stesso in cui egli, in qualunque modo, acquisisca la conoscenza di fatti o circostanze che rendano tale illiceità manifesta. La “comunicazione delle autorità competenti” rappresenta, dunque, solo una fonte qualificata di acquisizione della conoscenza, che semmai semplifica la valutazione della manifesta illiceità, ma non ne è la condizione sine qua non.

Questa lettura è, per la Suprema Corte, la più coerente e fedele con la Direttiva 2000/31/CE (la Direttiva sul commercio elettronico), che il decreto legislativo n. 70/2003 ha recepito. La Direttiva, infatti, prevedeva una responsabilità del prestatore di servizi per l’omessa rimozione basata sulla mera conoscenza, comunque acquisita, del carattere illecito.

Il principio di diritto cristallizzato è quindi limpido: “il prestatore di servizi informatici che assuma il ruolo di hosting provider non attivo va, di regola, esente dalla responsabilità per la pubblicazione delle eventuali informazioni illecite che provengano dai terzi (…) ma, una volta che egli acquisisca la consapevolezza della manifesta illiceità degli stessi (in qualunque modo, anche non necessariamente a seguito di una comunicazione delle autorità competenti (…), è tenuto ad attivarsi per rimuoverli tempestivamente, per continuare a godere dell’esenzione dalla indicata responsabilità”.

Commento Critico: Digital Gatekeeper e l’Onere della Vigilanza Post-Factum

Questa Ordinanza rappresenta un passo fondamentale nella giurisprudenza sulla responsabilità degli intermediari della rete. Supera l’interpretazione restrittiva della “conoscenza qualificata”, allineando il diritto interno alla ratio della Direttiva europea e a una giurisprudenza (anche penale) già consolidata, come quella che vede il “blogger” rispondere della diffamazione se, venutone a conoscenza, non provvede tempestivamente alla rimozione.

Le implicazioni pratiche sono notevoli. Per gli hosting provider, in particolare quelli che gestiscono blog o piattaforme con sezioni commenti, la sentenza rafforza l’idea di una responsabilità “da Custode consapevole” post-pubblicazione. Non è richiesta una censura preventiva generalizzata (e nemmeno un obbligo di filtri attivi, la cui assenza non prova un ruolo attivo del provider), ma un dovere di intervento celere ed efficace una volta che l’illiceità del contenuto diventi manifesta. Il cuore del problema si sposta dunque dal controllo a priori all’azione tempestiva a posteriori.

La sfida per i provider, e di conseguenza per gli operatori del diritto che li assistono, sarà ora quella di definire cosa costituisca “conoscenza” e “manifesta illiceità” in assenza di un provvedimento autoritativo. Una segnalazione circostanziata da parte della parte lesa, se sufficientemente specifica e convincente, potrebbe essere considerata sufficiente a innescare l’obbligo di rimozione. Ciò impone ai provider di dotarsi di procedure interne efficienti per la gestione delle segnalazioni e per la valutazione della “manifesta illiceità”, evitando di trincerarsi dietro la richiesta di un ordine giudiziale o amministrativo. Questo punto di equilibrio mira a tutelare sia la libera circolazione delle idee sia la reputazione individuale, ma pone al contempo il provider di fronte alla sua responsabilità quando la negligenza si traduca nell’omessa reazione a un fatto illecito noto.

Conclusione

L’Ordinanza 17360/2025 non è solo una correzione giurisprudenziale: è un importantissimo monito. Nel dinamico ecosistema digitale, dove i contenuti si propagano con la velocità di un clic e l’informazione (o la disinformazione) acquisisce virale pervasività, il diritto è chiamato a un costante aggiornamento. La Cassazione, in questo caso, ha dimostrato di saper leggere la complessa interazione tra tecnologia e responsabilità, affermando un principio di responsabilità reattiva che bilancia il non-obbligo di sorveglianza preventiva con il dovere di intervento ex post in presenza di una conoscenza concreta.

 

Il messaggio è chiaro: l’hosting provider, pur non essendo un censore, non può nemmeno essere un recettore passivo di contenuti manifestamente illeciti. L’ “algoritmo della consapevolezza” ora impone al gestore della piattaforma di assumere, una volta accesa la luce sull’illiceità, il ruolo di “Custode consapevole” della reputazione, con un dovere di azione che travalica le mere comunicazioni ufficiali e si radica nella sostanza della conoscenza. Una sentenza che, in definitiva, rafforza la tutela della reputazione online e invita tutti gli attori della rete ad un più elevato standard di diligenza e responsabilità nel gestire i flussi informativi. Un capitolo fondamentale si è scritto: la sua applicazione pratica sarà ora il banco di prova per il futuro della giustizia digitale.

 

di Daniele Concavo – Avvocato del Foro di Milano con particolare esperienza nel mondo del Fitness e nella tutela della reputazione aziendale e personale.

L’Avv. Concavo è Cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della comunicazione d’impresa con il Professore Ruben Razzante all’Università Cattolica di Milano.