Secondo un recente rapporto della società di consulenza Challenger, Gray & Christmas, solo nel mese di ottobre sono stati annunciati oltre 153.000 licenziamenti negli Stati Uniti, pari a un aumento del 175 % rispetto allo stesso mese dell’anno precedente — e al picco peggior ottobre dal 2003.
Gran parte dei tagli si è concentrata nel settore tecnologico: aziende informatiche e digitali che stanno ridefinendo internamente i propri modelli produttivi eliminando mansioni amministrative o di media complessità, in favore di funzioni automatizzate.
Il fenomeno non riguarda più solo i lavori manuali o di basso valore aggiunto: con l’avanzamento dei modelli linguistici e degli algoritmi di apprendimento automatico, sta toccando anche quella categoria un tempo considerata al riparo, i “colletti bianchi”: traduttori, contabili, tecnici legali, programmatori, persino giornalisti, secondo gli esperti. A differenza delle rivoluzioni industriali del passato — che colpivano principalmente la forza fisica — questa volta è il cervello umano che viene messo alla prova.
I motivi sono molteplici: da un lato, c’è la necessità per le aziende di contenere i costi in un contesto di crescita moderata della domanda e aumento dei costi operativi; dall’altro, c’è la convinzione che le macchine intelligenti possano svolgere in modo più efficiente e meno costoso una serie di compiti ripetitivi e cognitivi. Andy Challenger sottolinea che «alcuni settori stanno subendo una correzione dopo il boom delle assunzioni causato dalla pandemia», ma ciò accade «nell’ambito dell’adozione dell’Intelligenza Artificiale, del calo della spesa e dell’aumento dei costi».
Sul piano economico e politico, il dato assume un rilievo particolare: un mercato del lavoro più debole può influenzare la domanda interna e rendere più cauta la politica monetaria della Federal Reserve. E mentre le assunzioni rallentano, l’occupazione tagliata dalla “ondata IA” fatica a essere riassorbita in nuovi ruoli, alimentando il rischio di una transizione lunga e complessa.
Si apre allora una domanda cruciale: siamo di fronte all’apocalisse del lavoro intellettuale o a un fenomeno di trasformazione fisiologica, in cui vecchi mestieri scompaiono ma ne nascono di nuovi? Da una parte, il capo economista di Google ha ricordato che nella storia all’eliminazione di interi comparti produttivi è conseguita una crescita occupazionale complessiva, come nell’epoca in cui l’agricoltura passò da oltre la metà della forza lavoro nell’Ottocento all’1,5 % odierno. Dall’altra parte, studiosi come Stuart Russell mettono in guardia: questa rivoluzione è più rapida delle precedenti e coinvolge funzioni cognitive e linguistiche, non solo fisiche.
Nel frattempo, il mercato del lavoro è costretto ad adattarsi: emergono nuove figure professionali legate all’IA — data scientist, ingegneri dell’apprendimento automatico, esperti di etica digitale e sicurezza informatica — ma la riqualificazione degli operatori già licenziati trova difficoltà. Il vero nodo è culturale e politico: come distribuire equamente i benefici dell’automazione e garantire che la liberazione dal lavoro ripetitivo non si traduca in una nuova forma di esclusione?
In conclusione, siamo davanti a un bivio: l’automazione può rappresentare una liberazione dalla fatica cognitiva e fisica, aprendo spazio all’innovazione e alla creatività; oppure rischia di disegnare una società in cui l’essere umano perde terreno a favore della macchina. Il compito della politica, delle imprese e della società sarà non solo di adattarsi, ma di governare questo passaggio: ridefinendo il lavoro, le competenze, il valore del contributo umano in un mondo sempre più “intelligente”.
di Matteo Cotellessa, Giornalista professionista in Direzione Comunicazione Mediaset e cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della Comunicazione d’impresa con il Prof. Ruben Razzante (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
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