Con la sentenza n. 26919 del 2024, la Corte di Cassazione ha fatto chiarezza su una questione dibattuta da tempo: quale sia il tribunale territorialmente competente a giudicare i reati di diffamazione commessi tramite trasmissioni televisive.
Il caso nasce da un procedimento avviato presso il Tribunale di Milano nei confronti di due autori di un programma TV in cui venivano fatte affermazioni ritenute diffamatorie nei confronti di un terzo (il querelante). La difesa ha eccepito l’incompetenza territoriale del tribunale meneghino, sostenendo che la speciale regola contenuta nell’art. 30, comma 5, della legge n. 223 del 1990, che prevede la competenza del foro di residenza della persona offesa, non fosse più applicabile, poiché riferita a un comma (il quarto) dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 150 del 2021.
La Cassazione, investita della questione in via pregiudiziale, ha rigettato questa impostazione, affermando invece che la norma sulla competenza territoriale conserva efficacia anche dopo la dichiarazione di incostituzionalità del comma richiamato. Secondo i giudici, infatti, il comma 5 ha una sua autonomia e continua a disciplinare i reati di diffamazione aggravata a mezzo radiotelevisivo, anche se ora inquadrati direttamente nell’art. 595 del Codice penale.
La Corte ha inoltre valorizzato l’esigenza di tutelare in modo più incisivo la persona offesa, tenendo conto del maggiore impatto lesivo della diffusione televisiva, e ha ribadito come il foro di residenza della vittima costituisca il luogo in cui si concretizza il danno alla reputazione. Ne consegue che il Tribunale di Milano, dove la parte offesa risiede, sia competente a giudicare i fatti anche se gli imputati non hanno alcun legame con quel territorio.
La Cassazione conferma così una lettura orientata alla protezione della dignità personale, chiudendo il dibattito su una norma che, pur colpita solo indirettamente dalla pronuncia della Consulta, era divenuta oggetto di interpretazioni divergenti.
S.B.
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