Era il 2019 quando WhatsApp rilevò un attacco anomalo: bastava una videochiamata per infettare il telefono della vittima con Pegasus, software capace di accedere a messaggi, microfoni, videocamere e geolocalizzazione senza che l’utente se ne accorgesse. A scoprirlo fu il Citizen Lab, che documentò l’utilizzo dello spyware contro giornalisti, attivisti e politici, per conto di governi autoritari.
Il caso ha segnato un punto di svolta: WhatsApp è stata la prima piattaforma a portare in tribunale i creatori di un software di sorveglianza, aprendo la strada a una possibile responsabilizzazione concreta dell’industria della sorveglianza globale. NSO, dall’altro lato, continua a difendere l’uso del software come “fondamentale contro il terrorismo”, annunciando ricorso.
Questa azione legale pone una questione: quanto siamo disposti a sacrificare la nostra privacy in nome della sicurezza?
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