La diffamazione, anche se commessa su internet e, in particolare, sui social network come Facebook, non cambia gli elementi che l’hanno da sempre caratterizzata: si tratta infatti di un reato che si consuma quando l’offesa è pronunciata in assenza della vittima.
In tema di diffamazione commessa per il tramite una piattaforma social, nel corso degli ultimi due decenni i Giudici di legittimità hanno radicato nella giurisprudenza della Suprema Corte un indirizzo consolidato – o, meglio, univoco –, alla cui luce le condotte lesive della reputazione altrui, realizzate attraverso un post recante espressioni offensive e pubblicato su Facebook, integrano gli estremi del reato di “diffamazione aggravata”, prevista e disciplinata dal terzo comma dell’art. 595, c.p.
Del resto, come chiarito dalla Cassazione nella sentenza n. 30737/2019, “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”.
Con una recente sentenza, la n. 10762/2022, la Corte di Cassazione, muovendosi nella direzione di rafforzare ulteriormente il precedente orientamento giurisprudenziale, afferma che si configura il reato di diffamazione aggravata (art. 595 c. 3 c.p.) a mezzo Facebook (pur) in assenza dell’indicazione dei nomi delle persone offese.
Quindi, un post offensivo rientra nell’ambito di applicazione della fattispecie astratta in parola, anche quando l’autore di esso non faccia nomi. Ai fini della sussistenza del reato si richiede, tuttavia, che il soggetto passivo sia in ogni caso individuabile, anche solo all’interno di una cerchia ristretta di persone.
Con l’ultima sentenza sul tema depositata pochi giorni fa, la n.39805, la Cassazione ha affermato che il “nome e cognome” nel profilo oltre alla presenza di altri dettagli hanno “un’insuperabile portata individualizzante”.
In questo caso, la corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un uomo condannato nel 2021 dalla Corte di appello di Caltanissetta, ha stabilito che scatta il reato di diffamazione per chi pubblica sul proprio profilo Facebook, o su una pagina social, un testo che attribuisce ad una persona specifica, identificata per nome e cognome, il danneggiamento della propria moto qualificandola come “schizofrenica certificata”. Né per togliersi dai guai è sufficiente appellarsi ad un furto di identità disconoscendo l’account.