SUI SOCIAL PARAGONARE UN AVVOCATO AL SUO ASSISTITO È REATO DI DIFFAMAZIONE

Il delitto di diffamazione può realizzarsi quando le frasi adoperate possono ledere o mettere alla berlina l’altrui reputazione. Cosa che, secondo il comune sentire, si verifica anche nella forma dell’allusione e dell’insinuazione, atteso che l’intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti.

Su queste basi, secondo il Giudice per le Indagini Preliminari di Viterbo (ordinanza del 13 giugno 2022), deve ritenersi che abbiano contenuto diffamatorio quei commenti sui blog o sui social network nei quali gli autori, augurando agli avvocati di finire in galera o ai loro familiari di fare la stessa fine delle vittime dei gravi reati in questione, insinuano che il comportamento dei difensori sia riprovevole tanto quanto quello dei soggetti che assistono, così assimilando moralmente la figura del difensore a quella di chi si macchia di gravi reati.

Il procedimento traeva origine dalla denuncia-querela sporta dal Presidente di Camera Penale, in cui veniva esposto che, a seguito degli arresti dei responsabili di un grave episodio di violenza sessuale, in calce ad alcuni articoli pubblicati sui noti quotidiani online erano apparsi commenti dal contenuto offensivo e minatorio rivolto agli avvocati che avevano assunto la difesa degli indagati. Commenti che mettevano a rischio la reputazione individuale dei legali coinvolti nel procedimento e anche la figura stessa dell’avvocato penalista quale garante del diritto di difesa.

Il Gip che ha ordinato al Pm di svolgere tutte le indagini necessarie e ha chiarito che soggetti passivi del delitto di diffamazione sono anche gli enti collettivi e le associazioni. È infatti concettualmente ammissibile l’esistenza di un onore sociale collettivo, quale bene morale di tutti i soci, associati, componenti, membri, come un tutto unico, capace di percepire l’offesa. Infatti, secondo il Gip in casi come quello in questione, l’offesa, oltre che ai singoli difensori, viene arrecata anche alla categoria cui appartengono.

Pertanto, nel caso di specie è configurabile un’offesa ad un bene morale percepibile da più soggetti in quanto appartenenti ad una determinata categoria, quella degli avvocati penalisti. Ecco perché in vicende come questa può ritenersi che la querela possa essere legittimamente presentata dalla Camera Penale stessa, che tra i suoi scopi statutari ha anche quello di tutelare la dignità, il prestigio ed il rispetto della funzione del difensore.

Inoltre, il Gip evidenzia anche la questione relativa all’esercizio legittimo del diritto di critica. Tale diritto, rappresentando l’esternazione di una opinione relativa a una condotta o ad una affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero che è garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, il diritto di critica può essere evocato quale scriminante rispetto al reato di diffamazione. Tuttavia, il limite della continenza formale richiede una forma espositiva proporzionata e “corretta”, vale a dire non sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, non trasmodante nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione.

Per il Gip valicano tale argine della correttezza commenti sul web come “questi avvocati vanno condannati, sono tutti venduti” o “meritate la stessa sorte” o “in galera anche voi”. Espressioni che – per il Gip – sono in grado di ledere la nomea e per ciò stesso il credito sociale del soggetto passivo e di tutta la categoria di appartenenza.