L’INDIVIDUAZIONE DELL’INDIRIZZO IP È ESSENZIALE PER INDIVIDUARE LA PATERNITÀ DI UN POST DIFFAMANTE SU FACEBOOK?

Il reato di diffamazione (ex art. 595 c.p.) può essere commesso anche tramite strumenti informatici. Il suo fondamento giuridico si trova nel comma 3 dell’art. 595 c.p., che sanziona la diffamazione aggravata nell’ipotesi in cui l’offesa alla reputazione “sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.

Per ovvi motivi il Codice originario del 1930 non poteva prevedere un riferimento diretto all’uso di strumenti informatici o telematici, ma in un secondo momento la Corte di Cassazione ha ricondotto gli insulti via social al concetto più ampio di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.

La Cassazione Penale con sentenza n. 40083/2018 si è espressa nello specifico in relazione al social Facebook: “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”. Il reato in esame tutela il bene giuridico della reputazione (intesa come il senso della dignità personale in conformità del gruppo sociale) e, quindi, più soggetti percepiscono l’offesa, maggiore sarà il danno recato alla vittima.

Sul web risulta più complicato risalire all’identità di chi attua azioni illecite, ma per la polizia postale la chiave di svolta è l’indirizzo IP, ovvero un codice numerico usato da tutti i dispositivi (computer, server web, modem, cellulari) per navigare e comunicare in una rete locale. Questo è visibile e raggiungibile da tutti gli host della rete. Per tanto si tratta di un identificatore unico (molto simile a un indirizzo postale) associato all’attività online di un utente.

Per parlare di reato di diffamazione su Facebook, però, non serve individuare un indirizzo IP perché la paternità di un post diffamante ad un determinato utente è facilmente rintracciabile, anche se l’utente non ha denunciato l’uso del suo profilo da parte di terzi. La Corte di Cassazione, però, considera rilevante la mancata segnalazione alle autorità del furto di identità.

Su questo la Corte ha già avuto modo di esprimersi con una nota sentenza sempre del 2018 (n. 5358). Nel caso di specie, una donna era stata accusata e condannata per aver diffuso su Facebook un messaggio diffamatorio nei confronti di un sindaco. I legali dell’imputata avevano contestato la sentenza della Corte territoriale per aver ritenuto a lei riferibile il messaggio senza identificare l’IP di provenienza del post, ma solo sulla base di due indizi: un profilo riportante suo nome e cognome e la natura dell’argomento di discussione ritenuto di interesse per la donna. La Suprema Corte aveva concluso contestando la motivazione del giudice di secondo grado, in quanto questa non si sarebbe adeguatamente confrontata con le argomentazioni difensive secondo le quali l’accertamento dell’IP di provenienza del post poteva essere utile per poter verificare il titolare della linea telefonica associata.

Occorre però precisare che la sentenza della Corte non ha in alcun modo stabilito che l’IP sia un elemento imprescindibile ai fini di una condanna per diffamazione aggravata, ma ha giudicato la motivazione insufficiente in quanto aveva ricondotto l’account alla donna senza valutare ulteriori e adeguati indizi.

Quindi l’imputato chiamato a rispondere di un post diffamatorio, laddove ritenesse che questo non sia stato scritto da lui, potrebbe denunciare di aver subito un furto di identità; denunciare l’uso improprio del suo nome; disconoscere il contenuto del post: prendere una posizione di smentita; oppure cancellarlo del tutto.

Tre anni più tardi, la Cassazione ha riconfermato tali disposizioni con la sentenza n. 24212/2021. Gli Ermellini hanno ritenuto la possibilità di condannare l’imputata del reato di diffamazione anche su base indiziaria, ovvero per mezzo di convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l’argomento della discussione in cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo nickname, anche in mancanza dell’accertamento sulla provenienza dall’indirizzo IP.

I giudici di legittimità hanno riaffermato quanto espresso nel 2021 con la sentenza n. 4239/2022, pronunciata dalla V Sez. Penale della Corte di Cassazione: è possibile l’individuabilità dell’autore sulla base di criteri logici e massime di esperienza condivise, anche senza indirizzo IP. Quest’ultimo però rimane opzione esercitabile e utile per l’accertamento che il post sia effettivamente partito da un device in uso da parte dell’imputato, in un luogo e in un momento in cui egli effettivamente si trovava.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva riconosciuto la paternità di un post attraverso una serie di elementi convergenti, come il nome dell’imputato, i rapporti poco amichevoli tra le parti, il passato, la circostanza che, precedentemente, la persona offesa avesse scritto due articoli fortemente critici sull’operato del ricorrente come consigliere regionale e in altre attività connesse con la sua carica pubblica. Per cui un ulteriore accertamento sulla titolarità della linea telefonica utilizzata per le connessioni non era indispensabile.