Sembra il trailer di una serie distopica, invece è quanto emerge da una richiesta formale della United States Customs and Border Protection (CBP) alle aziende tecnologiche: sviluppare una tecnologia in grado di fotografare e identificare ogni occupante di un’auto che entra negli Stati Uniti.
Oggi la tecnologia di riconoscimento facciale è già usata in aeroporti, porti e valichi terrestri, ma adattarla all’ambiente caotico di un’automobile, tra passeggeri posteriori e in movimento, riflessi sui vetri e condizioni di luce variabili, è una sfida tutt’altro che semplice.
Secondo i documenti ottenuti da attivisti e giornalisti, la percentuale di successo nei test è ancora bassa. Alla frontiera texana di Anzalduas, al confine col Messico, il sistema ha effettivamente catturato solo il 76% dei volti, con un tasso di corrispondenza documentale ancor più basso. Per questo la CBP ha lanciato una richiesta alle aziende tech per migliorare l’accuratezza e raggiungere una copertura del 100%.
Intanto, anche l’agenzia per l’immigrazione Ice ha assegnato a Palantir un contratto per monitorare chi lascia volontariamente il Paese, usando tecnologie che raccolgono dati biometrici, geolocalizzazioni e cronologie di viaggio. Cresce quindi il timore per una raccolta invasiva e poco trasparente di informazioni.
Sotto la promessa di “sicurezza alle frontiere”, si rischia di normalizzare una sorveglianza sempre più capillare e permanente. Il vero confine, ormai, non è più tra Stati: è tra ciò che accettiamo di sacrificare e ciò che vogliamo ancora difendere.
A.C.