Il modello sviluppato presso l’Università di Stanford e l’Arc Institute e al quale è stato dato il nome Evo, ha generato centinaia di sequenze virali, alcune delle quali si sono dimostrate vitali e capaci di infettare batteri, aprendo così nuove possibilità nella lotta contro l’antibiotico-resistenza. Questo risultato, per quanto promettente, solleva questioni cruciali di ordine etico, giuridico e sociale, poiché per la prima volta un sistema artificiale non si limita a simulare la vita, ma la crea.
Se usata in modo terapeutico, questa tecnologia potrebbe rivoluzionare la medicina, permettendo la progettazione su misura di agenti biologici per combattere infezioni resistenti; tuttavia, la stessa capacità potrebbe essere utilizzata impropriamente, dando origine a rischi legati alla cosiddetta “dual use research”, ovvero quelle ricerche che possono avere esiti sia benefici sia dannosi.
La configurazione legislativa attuale non è preparata ad affrontare simili scenari: le norme esistenti, infatti, non contemplano organismi generati da algoritmi, e la catena delle responsabilità tra sviluppatori, ricercatori e istituzioni, è ancora ambigua. La sfida quindi è non solo regolatoria ma, dato che l’AI dissolve i confini tra natura e tecnica, tra azione umana e processo automatizzato, è anche concettuale.
Di fronte a questa trasformazione è urgente una governance internazionale che garantisca sicurezza, trasparenza e tracciabilità nell’uso della bio-AI. Il diritto deve diventare uno strumento di fiducia, non solo di controllo, e accompagnare il progresso con regole chiare. La creazione di vita sintetica da parte di una macchina non è solo una conquista scientifica, ma una responsabilità culturale, e la sfida del futuro sarà saper custodire ciò che siamo ormai in grado di creare.
S.B.
Diritto dell’informazione
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