La legge avrebbe reso un reato per qualsiasi società di social media la rimozione di account di “un qualsiasi candidato politico o impresa giornalistica”, punibile con multe fino a 250.000 dollari al giorno.
I giudici dell’11° Circuito hanno stabilito che qualsiasi decisione di moderazione presa da piattaforme di social media come Twitter e Facebook, compreso il divieto di account specifici, sia effettivamente un atto di parola protetto dal Primo Emendamento.
Poche settimane fa però, la Corte d’Appello degli Stati Uniti per il 5° Circuito è giunta ad una decisione quasi opposta, confermando una legge del Texas promulgata lo scorso anno, che vieta alle principali piattaforme di social media di rimuovere qualsiasi contenuto basato sul “punto di vista dell’utente o di un’altra persona (o) il punto di vista rappresentato nell’espressione dell’utente o di un’altra persona”.
Con il parere del 5° Circuito, la Corte ha stabilito che, se il Primo Emendamento garantisce a ogni persona il diritto alla libertà di parola, non garantisce alle aziende il diritto di “imbavagliarla”. La legge del Texas, hanno detto i giudici, “non ostacola la parola; semmai ostacola la censura. Respingiamo l’idea che le aziende abbiamo il diritto di censurare ciò che le persone dicono in base al Primo Emendamento”.
Il tribunale del 5° Circuito ha respinto molte delle argomentazioni avanzate da aziende tecnologiche come Twitter e Facebook in difesa del loro diritto di moderare i contenuti, sostenendo che consentire tale moderazione significherebbe che “i provider di posta elettronica, le società di telefonia mobile e le banche potrebbero cancellare gli account di chiunque invii un’e-mail, faccia una telefonata o spenda denaro a sostegno di un partito politico, di un candidato o di un’azienda sfavoriti”.
Il tribunale ha apparentemente avallato una definizione utilizzata nella legge texana, secondo la quale le piattaforme di social media “funzionano come vettori comuni”, fornendo strumenti di comunicazione essenziali proprio come fanno gli operatori telefonici e via cavo. NetChoice e la Computer and Communications Industry Association, gruppi commerciali che rappresentano Facebook, Twitter e Google, hanno sostenuto davanti al 5° Circuito che le piattaforme di social media dovrebbero avere lo stesso diritto di modificare i contenuti che hanno i giornali, ma i giudici hanno respinto questa idea.
Ashley Moody, procuratore generale della Florida, ha chiesto alla Corte Suprema di decidere se gli stati hanno il diritto di regolamentare le modalità di moderazione dei contenuti da parte delle società di social media, citando il “divario inconciliabile” tra le decisioni dei due tribunali del circuito. Se la Corte dovesse ascoltare il caso, la sua decisione potrebbe avere ramificazioni che vanno oltre la Florida e il Texas, interessando decine di altri stati, tra cui Oklahoma, Indiana, Ohio e West Virginia che hanno approvato o stanno valutando leggi sui social media che impediscono esplicitamente alle piattaforme di moderare i contenuti.
Sebbene né la legge del Texas né quella della Florida menzionino Donald Trump per nome, entrambe sono state approvate dopo che l’ex Presidente è stato bandito dalla maggior parte delle principiali piattaforme di social media, tra cui Facebook e Twitter, in seguito all’attacco al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. I legislatori repubblicani sostengono da tempo che le piattaforme mostrano abitualmente pregiudizi anti-conservatori nelle loro pratiche di moderazione dei contenuti, cosa che i ricercatori hanno smentito.