Parlare con un chatbot può sembrare innocuo, quasi come confidarsi con un amico discreto. Ma attenzione: quell’amico registra tutto, non dimentica niente e, in certi casi, potrebbe anche non essere proprio dalla tua parte.
Chatbot e assistenti virtuali, come ChatGpt, Meta AI e Claude, sono ormai strumenti di uso quotidiano, utilizzati per lavoro, studio o semplice curiosità. Ma dietro la loro apparente semplicità, si nascondono numerosi rischi per la nostra privacy. Molti utenti, infatti, tendono a dimenticare che tutto ciò che scrivono può essere analizzato, archiviato e, in alcuni casi, utilizzato per migliorare i modelli di intelligenza artificiale.
Il problema principale nasce quando si condividono informazioni personali: dati bancari, numeri di telefono, codici di accesso o dettagli sulla propria salute. Nonostante le aziende che sviluppano questi sistemi assicurano di non vendere i dati a terzi, i chatbot chiedono con un disclaimer di non inserire dati sensibili.
Non sempre quindi è chiaro come vengano trattate le conversazioni e dove vengano conservate. Potrebbero essere utilizzate per “migliorare il servizio”: l’algoritmo ti studia, impara da te e condivide le tue parole con chi lo addestra.
Un ulteriore elemento di attenzione riguarda la giurisdizione: alcuni chatbot, soprattutto quelli sviluppati fuori dall’Europa, potrebbero non essere soggetti al GDPR e quindi offrire tutele meno solide rispetto a quelle previste dalla normativa europea.
Il consiglio degli esperti: evitare di inserire dati sensibili nei prompt e trattare ogni interazione come se fosse pubblica. Meglio utilizzare versioni di chatbot affidabili, legate ad aziende note e trasparenti sul trattamento dei dati.
In un mondo dove l’AI parla sempre di più, è fondamentale imparare a parlare con attenzione, sviluppando una consapevolezza digitale.
Perché, alla fine, anche i chatbot hanno una memoria, ma non sempre una coscienza.
A.C.
Diritto dell’informazione
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