L’idea di posticipare l’entrata in vigore di una parte cruciale dell’AI Act non è più un’ipotesi da scartare nei palazzi di Bruxelles. La Commissione europea valuta un rinvio tecnico del Regolamento sull’intelligenza artificiale, in particolare rispetto alla scadenza del 2 agosto 2026, quando dovrebbero entrare in vigore gli standard obbligatori per immettere sul mercato software ad alto rischio. Gli organismi di normazione incaricati, Cen e Cenelec, hanno già segnalato di non essere pronti.
Una pausa, dunque, diventa quasi necessaria. A inizio giugno la vicepresidente con delega al digitale, Henna Virkkunen, ha chiarito che senza standard non si può procedere. E lo stesso viceministro polacco Dariusz Standerski ha sollevato il tema al Consiglio dell’Unione europea. Il punto è chiaro: fermarsi sì, ma per fare cosa?
Oggi, 17 giugno, è previsto un incontro con il Parlamento europeo per fare chiarezza. Il timore, espresso da più parti, è che concedere tempo in assenza di un piano preciso possa far deragliare l’intero impianto normativo.
Una prima scadenza è già saltata: il 2 maggio sarebbe dovuto entrare in vigore il codice di condotta per i modelli di AI generativa, ma pressioni da parte di big tech e resistenze di categoria ne hanno rallentato la pubblicazione. Manca anche il codice di trasparenza previsto per agosto 2025, che imporrà etichette per deepfake, chatbot e contenuti generati da AI.
Lo scenario si complica ulteriormente con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Una pausa europea potrebbe alleggerire le tensioni transatlantiche e raffreddare i timori delle aziende USA, tradizionalmente ostili alla regolamentazione. Ma senza una strategia, il rischio è che l’Europa perda credibilità e influenza in un settore che cerca da anni di normare, senza ancora risultati concreti.
La domanda ora è se l’AI Act sia davvero lo strumento giusto per riportare l’Europa al centro della scena tecnologica, o se il ritardo, paradossalmente, ne confermi i limiti.
A.C.
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