La sentenza 33809/2021 dello scorso 12 novembre si è occupata del caso di un di dirigente commerciale di un’azienda che aveva restituito il pc aziendale in dotazione, al termine del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro aveva però riscontrato la mancanza di alcuni dati, come mail numeri di telefono ed informazioni su prodotti e metodi di produzione, asportati dal lavoratore.
L’azienda, dopo essersi rivolta ad un tecnico informatico, era riuscita a recuperare alcuni dati cancellati tra i quali una password per mezzo della quale ha potuto accedere alla corrispondenza del dirigente e, venendo a conoscenza dell’appropriazione indebita da parte di quest’ultimo di contatti e informazioni riservate costituenti patrimonio aziendale, aveva fatto causa all’ex addetto commerciale.
In primo grado il dirigente era stato condannato a risarcire la società di una cifra pari a 370.000 euro. La corte d’Appello di Torino aveva invece ritenuto inutilizzabili le conversazioni prodotte dalla società in quanto illegittimamente acquisite, condannando quest’ultima al risarcimento a favore del dipendente a titolo di indennità di mancato preavviso.
La Corte di Cassazione ha poi ritenuto fondati tutti i motivi di appello, cassando la sentenza di secondo grado e rinviandola alla Corte di Appello di Torino per la quantificazione dei danni. Hanno inoltre chiarito che “la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dall’art. 9, lett. a) e d) I. 675/1996, sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa” aggiungendo che “entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole rispettivamente processuali o di giudizio”.
Inoltre azioni di questo tipo sono in grado di ledere il patrimonio aziendale, costituendo un illecito civile che giustifica il licenziamento per giusta causa per violazione dei doveri di diligenza e fedeltà.
La Suprema Corte ha integrato il reato di danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici ex art. 635-bis c.p. stabilendo che la condotta prevista possa dirsi integrata anche qualora la cancellazione non sia definitiva.