Si fa riferimento all’umanesimo come l’insieme delle pratiche in campo scientifico e tecnologico che si pongono l’obiettivo di potenziare le capacità proprie dell’uomo. Da un lato, questo rende possibile gestire sfide comuni, come l’invecchiamento, in maniera del tutto innovativa. Dall’altro, bisogna considerare i rischi antropologici e politici che possono verificarsi.
Infatti, la questione più complessa riguarda l’accesso non equo alle tecnologie. Si può parlare di una vera e propria discriminazione tra coloro che riescono a partecipare allo sviluppo e coloro che ne rimangono tagliati fuori. Si prevede un futuro in cui sempre meno persone avranno accesso ai potenziamenti, tramutandoli quasi in un fenomeno elitario.
Inoltre, si può osservare un’oscillazione tra due spazi: nel primo si stanzia un vero miglioramento della qualità di vita, nel secondo si rischia di fare di ciò che è potenziato la normalità. A ciò si aggiunge il rischio che queste tecnologie si trasformino in veri e propri strumenti di controllo.
Chi, tra i tanti, può avere un ruolo cruciale in questo processo? La figura del manager è essenziale e può fare la differenza, in quanto assume una responsabilità etica fondamentale. Infatti, chi dispone di questo ruolo è portato sia a implementare le tecnologie sia a dirigere il senso del loro utilizzo. Ma ancor di più essi devono fungere da mediatori tra innovazione e inclusione, allontanando possibili problematiche di emancipazione e di discriminazione.
Il rischio più imminente al giorno d’oggi sembra essere uno scetticismo culturale e morale nei confronti dello sviluppo, deriva che raggiunge il culmine con il fenomeno della disoccupazione tecnologica. Quindi, in un mondo in cui sfiducia e fascino per lo sviluppo tecnologico sembrano incontrarsi, è necessario definire il quadro di valori con cui si intende farne uso e il management ha un ruolo chiave in questa scelta.
L.V.

















