Cosa succede quando la memoria incontra l’algoritmo? Nei musei europei, l’Intelligenza Artificiale non si limita a digitalizzare archivi o ottimizzare le visite: inizia a riscrivere il nostro rapporto con la storia. Negli archivi, nei musei, nei siti archeologici, gli algoritmi stanno iniziando a operare su un doppio livello: da un lato aiutano a conservare, restaurare e ricostruire il passato, dall’altro stanno trasformando i metodi della ricerca storica e museale.
Secondo un recente studio dell’EPRS (il servizio di ricerca del Parlamento europeo) l’AI è già impiegata in attività complesse: identificare opere trafugate o perdute, completare una sinfonia incompiuta, identificare l’autore ignoto di un testo antico, localizzare siti archeologici o restituire i dettagli perduti di edifici distrutti come la cattedrale di Notre-Dame, ricostruendoli virtualmente. Non è più solo lavoro da specialisti, ma un compito condiviso tra esseri umani e macchine.
Il progetto “ReMasterpieces”, ad esempio, ha ricreato opere d’arte razziate dai nazisti, a partire da semplici fotografie in bianco e nero, grazie a tecniche come il transfer learning e le GAN. Oggi strumenti come ID-Art dell’Interpol o l’app dell’FBI per l’Art Crime Program usano l’AI per confrontare in tempo reale le immagini scattate dagli utenti con banche dati di oggetti scomparsi: un crowdsourcing algoritmico della memoria.
Ma per alimentare questi sistemi serve una base solida: dati di alta qualità, interoperabili, descritti con metadati standardizzati. Serve personale qualificato, formazione continua, e soprattutto risorse economiche. Ad oggi, l’Europa è ancora in ritardo: dipende dagli Stati Uniti per le piattaforme digitali e dall’Asia per le infrastrutture tecnologiche.
La risposta proposta da Bruxelles, però, è ambiziosa: creare un polo europeo per l’AI nei beni culturali. Un centro di competenze condiviso, in grado di promuovere innovazione e rigore, tecnologia e sensibilità, sempre nel rispetto della progettazione human-centered, dell’etica e della privacy. Nonostante ciò, la distanza da colmare resta ampia.
Senza una visione strategica, rischiamo che siano le aziende tech, non le istituzioni culturali, a decidere cosa conservare, come raccontarlo e con quali logiche. L’AI non può sostituire la cura umana della memoria, ma può diventarne un’estensione potente. A patto che la cultura non sia ridotta a dataset e che il patrimonio non venga archiviato prima di essere compreso.
A.C.