Valerio Catoia è un nuotatore 19enne con la sindrome di down. Due anni fa, a Sabaudia (in provincia di Latina) aveva salvato una bambina di 10 anni che rischiava di annegare. Per questo è stato insignito del titolo di Alfiere d’Italia dal presidente Sergio Mattarella. Ma su Facebook un gruppo di odiatori, dopo aver recentemente condiviso un articolo di encomi su di lui, si è scatenato: “Ha usato il monogommone”, “Downgnino” “E non è un cane” “Basta sparargli”.
L’invidia è una malattia grave, insultare per placarla è un rimedio peggiore del male. Chi offende Valerio non riesce a riconoscere che un ragazzo disabile abbia più successo di lui, perché vederlo arrivare alla notorietà toglie alibi al proprio fallimento. Catoia è infatti la prova che ce la si può fare contro ogni avversità, non vale scaricare la colpa sugli gli altri e sul destino avverso.
Quello contro Valerio è lo stesso tipo d’odio che colpì la campionessa paralimpica di scherma Bebe Vio, insultata e minacciata di violenze sessuali su una pagina di Facebook. La sua colpa è essere troppo famosa, troppo brava, troppo coraggiosa soprattutto. Con il suo esempio fa crollare le certezze di chi vive di stereotipi e pregiudizi contro il diverso. Queste persone come possono infatti accettare che il paria possa farcela? I bianchi razzisti americani delle classi più povere come potevano tollerare che un “negro” diventasse presidente degli Stati Uniti d’America mentre loro faticavano ad arrivare alla fine del mese? Chi offende le donne di potere sui social come può concepire che una femmina, nella visione tradizionalista destinata a casa e famiglia, raggiunga così bene i propri obiettivi professionali?
Prima le parole di odio venivano scritte sulle pareti dei gabinetti pubblici, ora sulla Rete, con un’amplificazione e danni molto superiori. La battaglia contro l’intolleranza online deve essere una priorità per tutti, a partire dalle famiglie e dalle scuole.