La Cina è diventata una potenza dell’open source. Ha scalato GitHub, domina con i suoi modelli AI open e investe in standard tecnologici globali come RISC-V. Eppure, lo fa con un approccio contraddittorio: promuove l’apertura del codice, ma impone limiti severi ai contenuti, ai collaboratori, alle piattaforme. Un paradosso che rivela quanto l’ambizione di autosufficienza tecnologica conviva faticosamente con la natura autoritaria del sistema.
Secondo il portale Artificial Analysis, 12 dei 15 principali modelli di AI open source oggi sul mercato sono cinesi. DeepSeek e Qwen sono ormai nomi noti tra gli sviluppatori. Il governo, spinto dalle sanzioni americane, ha puntato sull’open source per aggirare le restrizioni e costruire un’industria tecnologica meno dipendente dall’Occidente. Ha promosso progetti come OpenHarmony, investito in fondazioni collaborative come OpenAtom e spinto su hardware open come i chip RISC-V.
Ma il prezzo della trasparenza può essere alto, soprattutto in uno Stato dove la libertà digitale è sotto costante sorveglianza. Dopo aver bloccato temporaneamente GitHub nel 2021, nel 2022 il governo ha imposto la revisione preventiva di tutti i progetti su Gitee, l’alternativa cinese. E mentre gli sviluppatori locali aggirano i blocchi con VPN, piattaforme globali come Hugging Face sono oggi inaccessibili dalla Cina.
Fuori dai confini, intanto, l’open source cinese incontra diffidenza. Le aziende occidentali esitano a usare modelli AI made in China, temendo backdoor o possibili ritorsioni geopolitiche. Anche citare uno sviluppatore cinese in un paper può essere visto come un rischio.
La Cina è riuscita a dimostrare che l’open source può diventare una leva geopolitica. Ma l’equilibrio è fragile. Perché un ecosistema basato sulla fiducia, sulla collaborazione globale e sull’apertura non può sopravvivere se soffocato dal sospetto. La domanda che resta aperta è: può davvero esserci open source senza libertà?
A.C.