L’utilizzo della tecnologia in ambito medico si sta affermando come uno strumento fondamentale per supportare i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta nel delicato compito del sospetto diagnostico, trasformando radicalmente il modo in cui la diagnosi viene formulata e condivisa all’interno del sistema sanitario.
Riconoscere precocemente una condizione complessa o rara può infatti rivelarsi estremamente difficile, specie in assenza di strumenti adeguati, e il rischio di un ritardo può portare anche conseguenze fatali.
L’integrazione di strumenti digitali consente di migliorare l’appropriatezza del referral, ovvero la capacità del medico territoriale di stabilire quando e con quale urgenza è necessario coinvolgere lo specialista. In questo ambito si stanno affermando diverse soluzioni, come i Clinical Decision Support Systems (CDSS), che combinano linee guida mediche aggiornate con algoritmi di Intelligenza Artificiale per fornire al medico indicazioni utili nell’interpretazione dei sintomi e nella valutazione del rischio.
Esistono anche piattaforme collaborative che consentono il confronto multidisciplinare in modalità asincrona o sincrona, attraverso la condivisione strutturata di casi clinici e l’accesso a protocolli condivisi.
Esempio concreto del potenziale trasformativo del digitale lo si può osservare nell’ambito delle malattie rare pediatriche, come l’ipofosfatasia (HPP). Si tratta di una patologia genetica dell’osso, con sintomi che possono comparire precocemente ma che, per la loro aspecificità, sono spesso confusi con condizioni più comuni. Ritardi nella diagnosi sono frequenti e potenzialmente fatali: la forma perinatale può raggiungere un tasso di letalità del 100%, mentre la forma infantile arriva al 50%. In un simile contesto è evidente come strumenti digitali orientati al supporto del sospetto diagnostico possano fare la differenza.
La trasformazione digitale richiede ovviamente dei cambiamenti, non solo tecnici ma anche culturali: la medicina di prossimità non può più basarsi sull’isolamento professionale del medico di famiglia, ma deve evolvere verso un modello collaborativo in cui la condivisione delle competenze diventa quotidianità.
In alcune regioni italiane le prime esperienze di questo tipo stanno dimostrando risultati significativi, tra cui la riduzione degli invii inappropriati agli specialisti, una maggiore soddisfazione professionale tra i medici, una migliore qualità dell’assistenza e un accesso più rapido alla diagnosi per i pazienti, soprattutto quelli affetti da malattie rare.
Questo dimostra che questi modelli, se adeguatamente istruiti e sostenuti, possono rappresentare una risposta concreta alle criticità del sistema sanitario e portare a un ridisegnamento della medicina territoriale.
S.B.
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