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OMESSA INDICAZIONE DEL NOME DELL’OFFESO: PUO’ ESSERE DIFFAMAZIONE

Si conferma l'orientamento giurisprudenziale circa la non indispensabilità dell'indicazione nominativa del bersaglio della critica ai fini dell'integrazione del reato di diffamazione online

by Redazione
19 Giugno 2024
in Diffamazione
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OMESSA INDICAZIONE DEL NOME DELL’OFFESO: PUO’ ESSERE DIFFAMAZIONE
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La Corte di appello Caltanissetta riformava in senso favorevole all’imputata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il Tribunale di Caltanissetta, in data 26.4.2002, l’aveva condannata in relazione al reato di diffamazione commessa in danno della persona offesa, che, secondo la ricostruzione accusatoria, attraverso un post pubblicato su Facebook, era stata qualificata, senza però indicarne il nome, come inquilino moroso, disonesto, ex spacciatore di coca e autore di varie minacce di morte nei propri confronti.

Avverso la sentenza della Corte d’appello aveva proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando tra l’altro che non poteva ritenersi configurato il reato di diffamazione poiché non era stato indicato nei post pubblicati su Facebook il nome della persona offesa.

Di avviso contrario però la quinta sezione penale della Cassazione che con la sentenza n. 14345/2024 ha evidenziato come la diffamazione può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o tuttalpiù individuabili (in questo senso anche Sez. 5, n. 3809 del 28.11.2017).

Pertanto, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, sebbene in assenza di chiare indicazioni nominative, a persone individuabili sulla base di vari indici rivelatori, ciascuna di esse può ragionevolmente sentirsi destinataria di detta espressione, con conseguente configurabilità del delitto di diffamazione (cfr. Sez. 5, n. 18249 del 28.3.2008).

Orbene la decisione dei giudici di merito appariva assolutamente in linea con tali principi, in quanto, proprio in ragione del contenuto dei post, la persona offesa era certamente individuabile, come dimostrato anche dalla circostanza obiettiva, non contestata dalla imputata, che i testimoni la avevano subito riconosciuta, aprendo la pagina “Facebook”, che pertanto era accessibile a terzi, provvedendo poi a informare il soggetto offeso.

Il ricorso per cassazione pertanto veniva ritenuto inammissibile e l’imputata veniva condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della cassa delle ammende.

 

di Daniele Concavo – Avvocato del Foro di Milano con particolare esperienza nel mondo del Fitness e nella tutela della reputazione aziendale e personale.  L’Avv. Concavo è Cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della comunicazione d’impresa con il Professore Ruben Razzante all’Università Cattolica di Milano. 

Tags: DiffamazioneFacebooknomesentenza
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