Nell’epoca moderna i social media sono divenuti ormai parte integrante della vita quotidiana e professionale. Se da un lato risultano un valido strumento dalle grandi potenzialità, dall’altro, tuttavia, occorre tenere in considerazione le gravi ripercussioni che un loro uso nefasto può avere sugli altri utenti.
Numerose sentenze, infatti, sull’uso dei social equiparano il web ai luoghi pubblici, punendo anche i reati commessi in rete. Tra esse, è possibile menzionare il caso della dipendente della mensa scolastica di Nichelino, che dopo aver condiviso il post di una madre che si diceva disgustata dall’aver trovato uno scarafaggio nella polenta data al figlio, si era vista prima sospendere dall’azienda e poi licenziare. Il tutto senza aver mai nominato la mensa direttamente e in un profilo con impostazioni di privacy molto restrittive. Un altro caso invece è quello di una dipendente della Nestlé di Perugia, licenziata per aver criticato l’operato di un capo-reparto con un post su Facebook, nel quale dichiarava di averlo sentito redarguire un collega dicendo che per lui era necessario il collare. Nonostante la proteste sindacali, l’azienda aveva tenuto il punto, asserendo che l’operato della dipendente era una pura mistificazione dell’operato del capo-reparto che aveva redarguito un dipendente per la scarsa osservazione delle norme di sicurezza ed igiene.
Si moltiplicano inoltre i casi di licenziamento per giusta causa, dovuto ad un uso smodato ed eccessivo dei social in orario di lavoro, come accaduto alla segretaria di uno studio medico che, durante l’orario di servizio, nell’arco di 18 mesi, aveva effettuato dal pc in ufficio circa 6 mila accessi in Internet, di cui 4.500 su Facebook “per durate talora significative”, incrinando la fiducia del datore di lavoro. Numerose risultano anche le cause contro dipendenti che facciano uso improprio dei social, insultando i superiori gerarchici o i datori di lavoro. La lesione dei diritti della personalità in Rete è molto frequente e può integrare gli estremi della diffamazione on line, considerata diffamazione aggravata, come quella a mezzo stampa, ai sensi dell’art.595 del codice penale, con “altro mezzo di pubblicità”. E’ quello che è successo a un’impiegata di Forlì che si è sfogata sul social network contro l’azienda per la quale lavorava, offendendo il titolare e utilizzando un linguaggio scurrile e irriguardoso. Irrilevante il fatto che la donna non avesse specificato il nome della società, facilmente identificabile. Pur avendo cancellato il post, l’impiegata era stata licenziata e la sanzione era stata confermata in primo e in secondo grado.
Un buon dipendente, dunque, deve astenersi dal riportare espressioni gravemente lesive dell’immagine e della reputazione aziendale, eccedenti il diritto di critica, e dall’utilizzare un linguaggio offensivo e scurrile sui social media, onde evitare di compromettere la relazione di fiducia con il proprio datore di lavoro.