La svolta legislativa avutasi in Europa con il via libera alla nuova normativa sul copyright è stata anticipata da un altro strumento, essenziale nell’ambito del diritto: la giurisprudenza. Sono state emesse, infatti, negli ultimi anni alcune sentenze particolarmente rilevanti in tema di diritto d’autore, volte a meglio definire il grado di responsabilità attribuito agli Internet Service Providers. Queste sentenze testimoniano le difficoltà evidenti avute dagli studiosi di diritto nell’identificare e quantificare le responsabilità di coloro che agiscono nella rete, prima che fosse formalizzata una normativa puntuale al riguardo.
Il carattere complesso, indefinito e deterritorializzato di Internet e l’assenza di una legislazione adeguata hanno reso difficoltoso definire i responsabili della distribuzione, pubblicizzazione, detenzione o cessione a terzi di contenuti: secondo alcuni esperti di diritto sono da considerarsi responsabili i cosiddetti content providers, gli autori materiali della immissione in rete di dati illeciti; secondo altri i network providers, vale a dire i proprietari di infrastrutture di telecomunicazione; altri ancora ritengono che i veri responsabili delle illeceità commesse sul web siano gli access providers, cioè coloro che forniscono l’accesso in rete o i service providers, ossia i fornitori di servizi che si rivolgono all’utente finale consentendogli il collegamento ad Internet e a suoi ulteriori servizi come i news-server.
Facendo esplicitamente riferimento al quadro giuridico italiano, si può osservare come la giurisprudenza abbia cercato di colmare questo vuoto legislativo in materia per meglio definire ruoli e responsabilità in caso di violazione del diritto d’autore o dei diritti connessi al suo esercizio. Prima dell’approvazione della direttiva europea sul copyright, che dovrà essere recepita entro 24 mesi dal via libero definitivo del marzo 2019, nel nostro Paese, secondo la giurisprudenza prevalente, l’Internet Service Provider, come Google, non era responsabile dei contenuti illeciti caricati dagli utenti sulla rete, in quanto non vi era un obbligo di vigilanza del provider su tali contenuti. Un lungo percorso giurisprudenziale ha però pian piano messo in discussione tale principio. Tale percorso è stato, però, tutt’altro che lineare.
L’8 agosto 1996 il Tribunale di Napoli sostenne con un’ordinanza la responsabilità dell’ISP «per aver autorizzato, consentito o comunque agevolato il comportamento illecito» dell’utente produttore di contenuti illeciti. Con tale ordinanza il Tribunale ha ritenuto responsabile di illecito di concorrenza sleale, a titolo di compartecipazione colposa, il provider, e ordinato la chiusura del sito da questo gestito, sulla base della seguente argomentazione: «il proprietario di un canale di comunicazione destinato ad un pubblico di lettori – al quale va equiparato quale organo di stampa un sito Internet – ha l’obbligo di vigilare sul compimento di atti di concorrenza sleale eventualmente perpetrati attraverso la pubblicazione di messaggi pubblicitari di cui deve verificare la natura palese, veritiera e corretta concorrendo in difetto e a titolo di responsabilità aquiliana nell’illecito di concorrenza sleale».
Nell’agosto 1997 sempre il Tribunale di Napoli ha confermato il suo orientamento in una pronuncia, con cui ha equiparato la rete a un organo di stampa e attribuito in capo al proprietario di un canale di comunicazione o gestore di siti Internet «obblighi precisi di vigilanza sul compimento di atti di concorrenza sleale eventualmente perpetrati attraverso la pubblicazione dei messaggi pubblicitari». L’Internet Service Provider, quindi, concorrerebbe nell’illecito che risulta posto in essere dall’utente fornitore e pertanto la sua responsabilità non è attribuita a titolo diretto ed esclusivo, bensì a titolo concorrenziale.
Da ricordare inoltre la pronuncia del Tribunale di Roma del 4 luglio 1998 che gli studiosi tendono a indicare come un vero e proprio spartiacque tra una linea di attribuzione di responsabilità all’ISP per il controllo sui contenuti immessi da altri soggetti nei suoi siti e una linea di esonero dell’ISP dall’obbligo di controllo sui questi stessi contenuti. Questa storica sentenza, invertendo la rotta delle precedenti sentenze elencate, ha infatti escluso in modo inequivocabile la responsabilità dell’Isp: il provider eserciterebbe solo la funzione di mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtuale del sito, senza avere alcun potere di controllo e di vigilanza sui contenuti immessi in un newsgroup, dei quali un soggetto avesse denunciato il carattere diffamatorio.
A seguito di tale sentenza, la giurisprudenza italiana non ha sostanzialmente cambiato orientamento, tendendo a esonerare la responsabilità del mero gestore del sito. Il Tribunale di Roma, con provvedimento del 22 marzo 1999, ha precisato che non può escludersi la sua colpa se le comunicazioni necessariamente date allo stesso provider al fine di ottenere il collegamento configurino esse stesse all’evidenza un illecito.
Da segnalare anche la sentenza del Tribunale di Catania del 22-29 giugno 2004 n. 2286 che ha stabilito che il provider, se sceglie in prima persona i contenuti da pubblicare online non è legittimato a diffondere materiale senza il benestare dell’autore, condannando, nel caso specifico, un provider per violazione del diritto d’autore online per la pubblicazione di un’opera su un sito senza il benestare dell’autore.
È rilevante in tema di diritto d’autore anche la sentenza n. 20 del 7 gennaio 2015 della Corte d’Appello di Milano, la quale ha precisato che le piattaforme di video sharing non sono direttamente responsabili della pubblicazione da parte degli utenti di video coperti dal diritto d’autore. Esse sono tenute a rimuoverli, ma solo in presenza di segnalazioni «qualificate, puntuali e circoscritte». Tale sentenza ha ribaltato la decisione presa in primo grado dal Tribunale di Milano, con sentenza 10893/2011, secondo cui la diffusione da parte di Yahoo video di contenuti audiovisivi tratti da programmi televisivi Rti – Mediaset rappresentava violazione del copyright. Il 19 marzo 2019 la prima sezione civile della Corte di Cassazione con sentenza 7708 ha, però, ribaltato la decisione della Corte d’Appello, riconoscendo la responsabilità di Yahoo nelle violazioni al diritto d’autore commesse dagli users. La Suprema Corte ha chiarito che la responsabilità del prestatore di servizi della società dell’informazione che non abbia provveduto alla rimozione dei contenuti illeciti sussiste in presenza di tre condizioni: la conoscenza dell’illecito commesso dal destinatario del servizio; la possibilità di contestare la condotta illecita; la possibilità di attivarsi utilmente al riguardo.
Relativamente all’uso delle immagini tratte dai social network è da segnalare la sentenza n. 12076 del Tribunale di Roma, depositata l’1 giugno 2015, che statuisce che le foto pubblicate su Facebook non possono essere riprodotte altrove senza il consenso del titolare dei diritti, in una fattispecie riguardante la pubblicazione, su un quotidiano, di alcuni articoli sul rapporto fra giovani e discoteche con l’utilizzo di fotografie ottenute da terzi, senza citare il nome dell’autore e la fonte.
Altra pronuncia significativa è la n. 9026 del 5 maggio 2016 pronunciata dal Tribunale delle Imprese di Roma. La controversia verteva sulla condivisione di programmi tv sul web. A detta dei giudici di Roma il provider risulta responsabile delle violazioni della normativa sul diritto d’autore commesse dagli utenti se è a conoscenza dell’illiceità nel caso in cui, alla segnalazione di un illecito da parte del titolare dei diritti, non si attivi per interrompere la violazione, evitandone il protrarsi. In tal caso, non si potranno ritenere invocabili esenzioni di responsabilità, in quanto l’onere di attivazione deve sorgere automaticamente non appena a conoscenza dell’illecito, a prescindere dall’esistenza di un preventivo ordine di rimozione da parte dell’autorità civile o amministrativa.
È stata, però, senza dubbio la sentenza n. 3512/2019 del Tribunale di Roma, emessa nell’imminenza dell’approvazione della nuova direttiva sul copyright, e depositata il 15 febbraio 2019, a rappresentare il vero pilastro giurisprudenziale precursore dell’entrata in vigore della direttiva stessa. I giudici di Roma hanno condannato il gigante del digitale Facebook, chiamato in giudizio da Mediaset, per violazione del diritto d’autore e diffamazione, riconoscendo l’illiceità della condotta del social network e condannandolo a rispondere delle sue responsabilità. Il caso specifico era il seguente: nel 2012, alcuni utenti anonimi avevano aperto una pagina Facebook dedicata a «Kilari», un cartone animato trasmesso da Italia Uno; alcuni link di quella pagina conducevano da un lato a contenuti tutelati dal diritto d’autore illecitamente caricati su Youtube, dall’altro a pesanti insulti e commenti denigratori indirizzati all’interprete della sigla della serie animata. Nonostante le numerose diffide, il social network si è rifiutato di rimuovere i contenuti e i link oggetto di contesa, costringendo Mediaset ad agire per via legale. La sentenza ricostruisce il quadro normativo di riferimento e mette così in evidenza la deresponsabilizzazione che in linea di principio aveva contrassegnato, a livello europeo, fino a quel momento gli Internet Service Providers, non attribuendo loro responsabilità per le informazioni trattate e le operazioni compiute dagli utenti del servizio. La direttiva 2000/31/CE esclude, infatti, un obbligo di monitoraggio preventivo, come pure un vincolo generale di ricerca di fatti e circostanze che indicano la presenza di attività illecite. Con riferimento all’attività di hosting, all’interno della quale deve essere ricondotto il caso discusso, la responsabilità del provider deve essere esclusa (articolo 16 comma 1, d.lgs. n. 70 del 2003) a condizione che lo stesso non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione. Tale esenzione è stabilita inoltre anche qualora il provider, messo a conoscenza dei fatti, si attivi immediatamente per rimuovere i contenuti “incriminati”, impedendone anche l’accesso agli utenti.
Nel caso specifico analizzato, il Tribunale romano ha ritenuto che le lettere di diffida inviate da Mediaset a Facebook nel corso del 2010, che intimavano al colosso web di rimuovere il contenuto tutelato da copyright, fossero sufficientemente circostanziate, sin dalla prima comunicazione che conteneva informazioni dettagliate sui contenuti illeciti e l’indicazione dell’url relativo alla pagina web di apertura del profilo Facebook, attraverso la quale era possibile vedere alcuni contenuti della serie televisiva.
Tale sentenza costituisce indubbiamente una svolta che precorre sul piano giurisprudenziale i principi stabiliti sul piano normativo dalla direttiva sul copyright approvata il mese successivo: si tratta della prima decisione con cui in Italia viene riconosciuta la responsabilità di un social network per una violazione avvenuta anche solo attraverso il cosiddetto “linking”, ovvero la pubblicazione di link a pagine esterne alla propria piattaforma. Viene così recepita ufficialmente in questo modo in Italia l’ormai consolidata giurisprudenza europea in tema di violazioni del diritto d’autore.
La sentenza contro Vimeo, insieme alla sopracitata pronuncia contro Facebook, è l’ennesimo caso significativo di responsabilizzazione degli ISP, che anticipa l’entrata in vigore della successiva direttiva sul copyright. Vimeo, social network dedicato a registi e film makers che intendono condividere e commentare materiale multimediale (quello pubblicato su Vimeo non ha inserzioni pubblicitarie), è incorso in problemi giudiziari simili a quelli di Youtube. Con la sentenza n. 693 del 10 gennaio 2019, il Tribunale di Roma, ha condannato Vimeo per non essere intervenuto tempestivamente, rimuovendo file caricati dagli utenti e giudicati illeciti, a risarcire Mediaset di 8,5 milioni di euro. Dovrà anche impedire nuovi upload di contenuti dalla stessa provenienza, altrimenti dovrà pagare mille euro per ogni filmato e cinquecento euro per ogni giorno di visibilità del materiale censurato.