Una volta, un ingegnere junior imparava affiancando un senior. Progettavano insieme un microchip, affrontavano complessità crescenti, costruivano competenze nel tempo. Una guida esperta, che fornisce supporto e feedback, e fa sì che il principiante possa interiorizzare le competenze. Oggi, l’AI svolge i compiti più semplici, lasciando poco spazio agli apprendisti. Il risultato? Meno errori, sì. Ma anche meno umanità, meno abilità trasmesse, meno crescita reale.
Secondo uno studio di Microsoft Research e Carnegie Mellon University, l’utilizzo delle IA potrebbe indebolire il pensiero critico e la capacità di risolvere problemi complessi.
L’affidamento crescente a questi strumenti riduce infatti lo sforzo cognitivo necessario per affrontare le sfide, compromettendo così la capacità di elaborare idee originali. Ma quale prezzo paghiamo, quindi, in termini di competenze umane?
Nel saggio Il DNA delle competenze si parla di un modello in tre pilastri che spiega come si costruisce il sapere pratico: sfida, complessità e connessione. Tre ingredienti oggi messi in crisi da tecnologie che semplificano, automatizzano e isolano.
L’AI rischia di dequalificare il lavoro, tagliando fuori i giovani dalla filiera dell’apprendimento. Il danno non è solo individuale: a lungo termine si perde anche il capitale esperto di intere professioni.
Le strategie per arginare questo declino passano per il rafforzamento delle abilità distintive dell’essere umano, quali empatia e creatività, difficili da replicare con l’AI. Promuovere una cultura dell’apprendimento continuo, potenziando le capacità trasversali come la comunicazione e la collaborazione interpersonale, è essenziale per mantenere l’equilibrio tra uomo e macchina.
Un futuro chimerico, dove AI e umani imparano insieme, è possibile. Ma serve un impegno genuino da parte di governi, aziende e individui. Perché le competenze non si caricano via API: si trasmettono. E se smettiamo di farlo, smettiamo di crescere.
A.C.
Diritto dell’informazione
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