Nel cuore del dibattito pubblico istituzionale torna con forza la richiesta di una ristrutturazione della Legge 150/2000, la norma che per un quarto di secolo ha rappresentato la base della comunicazione nella pubblica amministrazione. Una legge considerata predigitale e inadeguata a regolare il nuovo ecosistema informativo.
L’aggiornamento normativo dovrebbe partire da quattro capisaldi irrinunciabili.
Primo, l’istituzione obbligatoria in ogni PA, anche in forma associata o aggregata, di strutture per la comunicazione e l’informazione, con accesso tramite concorso pubblico e un sistema di sanzioni per gli enti inadempienti.
Secondo, un raccordo forte con le migliori esperienze europee e internazionali, per garantire coerenza e qualità nella gestione dei fenomeni complessi e dell’informazione istituzionale.
Terzo, il riconoscimento pieno e formale dei profili professionali esistenti, comunicatore pubblico e giornalista istituzionale, evitando frammentazioni inutili e investendo su percorsi formativi e deontologici robusti.
Quarto, il primato della funzione pubblica della comunicazione rispetto alla comunicazione politica esercitata dai vertici delle amministrazioni.
In un contesto sempre più digitale, la comunicazione pubblica deve essere trasversale, integrata, accessibile, ma soprattutto professionale. Serve una “Communication room” unificata all’interno di ogni ente, che operi in sinergia con altri uffici strategici (anticorruzione, transizione digitale, partecipazione) e che sia guidata da figure qualificate con competenze manageriali e di governance dell’ecosistema comunicativo.
Una riforma ben costruita permetterebbe alla PA di parlare in modo chiaro, diretto e trasparente ai cittadini, favorendo inclusione, fiducia, partecipazione e sviluppo democratico.
Per affrontare le sfide attuali, non basta più “possedere” canali digitali: è necessario saperli usare, con competenza, metodo e visione.
A.C.