Se l’Intelligenza Artificiale può già guidare auto, scrivere romanzi e rispondere ai quesiti umani, perché non potrebbe anche essere cosciente? Questa domanda, apparentemente fantascientifica, è oggi al centro di un dibattito che coinvolge non solo scienziati e ingegneri, ma anche filosofi, eticisti e decisori politici. Ma cosa intendiamo davvero per “coscienza artificiale”? E soprattutto, dovremmo investire in una tecnologia che simula, o forse un giorno possiederà, la capacità di avere esperienze soggettive?
Per orientare la riflessione è utile distinguere tra questioni etiche fondamentali e pratiche. Le prime riguardano i fini della ricerca sull’AI e le implicazioni in termini di soggetto, responsabilità e libero arbitrio. Le seconde toccano l’impatto quotidiano della tecnologia: come funziona, come viene usata, come ci relazioniamo con essa.
Un tema centrale è il funzionalismo, ovvero la teoria secondo cui la coscienza può emergere in qualsiasi sistema che svolga determinate funzioni, anche se non biologico. Questa visione, tuttavia, solleva dubbi teorici e pratici. Ignora il ruolo del corpo nell’esperienza soggettiva e rischia di ridurre la coscienza a una serie di operazioni computabili. Attribuire coscienza alle macchine può inoltre generare confusione, alimentare aspettative o paure infondate e spingere a usi impropri dell’AI.
Una coscienza limitata a funzioni epistemiche, senza consapevolezza morale o estetica, potrebbe essere potente ma non necessariamente saggia. Eppure, proprio per questo, aumenta la responsabilità umana nel decidere come e se perseguire questa strada.
Oltre agli aspetti scientifici, tecnologici e teorici, l’idea di sviluppare una coscienza artificiale solleva interrogativi etici profondi. Un modo utile per affrontarli è distinguere tra due livelli: da un lato le questioni fondamentali, che riguardano il significato stesso del creare una coscienza artificiale; dall’altro le questioni pratiche, che riguardano le implicazioni concrete di certe scelte teoriche, come l’adozione del funzionalismo.
In definitiva, non possiamo né dare per scontato che sviluppare una coscienza artificiale sia eticamente giusto o vantaggioso, né respingerlo per principio. Serve un approccio critico, nel senso più autentico del termine: capace di porre domande, analizzare contesti e valutare conseguenze. Perché di fronte a una tecnologia che potrebbe trasformare il nostro rapporto con il mondo e con noi stessi, la cautela non è debolezza, ma lucidità.
A.C.
Diritto dell’informazione
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