Nel futuro che l’INPS inizia a tratteggiare, a pagare le pensioni potrebbero essere i gemelli digitali: repliche AI dei lavoratori, addestrate durante la vita professionale per continuare a generare valore anche dopo il pensionamento. Un’idea suggestiva, utile a compensare il crollo demografico e il peso crescente della spesa pensionistica.
Grazie all’Intelligenza Artificiale generativa e agentiva, questi avatar potrebbero infatti replicare compiti, decisioni e competenze acquisite, contribuendo alla produttività aziendale. Ma se un lavoratore lascia il posto e il suo gemello continua a produrre, chi versa i contributi? L’azienda? Lo Stato? E quei contributi, quanto valgono?
L’INPS ipotizza un prelievo sul valore aggiunto prodotto dalle imprese, superando la logica attuale basata solo sulle retribuzioni. Ma il rischio è che questa visione tecnologica serva a rinviare una riforma strutturale del sistema pensionistico. Soprattutto se lo Stato continua a disincentivare la previdenza complementare per non toccare il gettito pubblico.
Questo scenario solleva interrogativi inquietanti anche sul piano dell’occupazione: se il gemello digitale lavora al posto nostro, chi lavorerà davvero? La tecnologia può aumentare la produttività ma anche ridurre l’occupazione. E con meno lavoro umano, calano anche i consumi, i salari e quindi i contributi.
Immaginare che un gemello digitale possa garantirci la pensione significa proiettare sul futuro una fiducia cieca nella continuità del lavoro, anche senza lavoratori. Ma la previdenza non è solo un problema di calcolo: è un patto tra generazioni, fondato sull’idea che il valore prodotto abbia anche un senso, non solo un prezzo. Se a sostenerci sarà un algoritmo, dovremmo chiederci non solo quanto produrrà, ma perché e per chi.
A.C.