La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha chiarito i criteri per valutare la diffamazione sui social, soprattutto quando il contenuto riguarda aspetti della sfera sessuale. Non basta infatti che un’espressione sia di natura “piccante” o faccia riferimento a comportamenti intimi per essere considerabile automaticamente offensiva, ma serve una valutazione attenta del significato delle parole, del contesto in cui sono state pronunciate e della loro reale capacità di ledere la reputazione del soggetto interessato.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un uomo condannato per aver pubblicato un post in cui raccontava che l’ex moglie aveva partecipato a una serata “a luci rosse”. I giudici di merito avevano ritenuto tale contenuto lesivo dell’onore della donna, tuttavia la Cassazione, pur rilevando la prescrizione penale, ha annullato la sentenza in sede civile, sottolineando che descrivere un singolo episodio di natura erotica, privo di giudizi svalutativi o di riferimento a comportamenti abituali, non configura automaticamente come una diffamazione.
La Corte ha anche contestato la lettura offerta dai giudici di merito, che avevano trasformato un episodio isolato in un’indebita generalizzazione, attribuendo alla donna una frequentazione abituale dei contesti erotici, senza alcuna prova concreta né base giuridica. Inoltre, ha sottolineato l’importanza di considerare il contesto in cui il post era stato scritto. La reazione dell’uomo, infatti, era stata la conseguenza a un’e-mail privata, contenente accuse ingiuste, ricevuta poco prima.
In conclusione, la Cassazione invita a non applicare in modo automatico criteri moralistici, ma a considerare la reale offensività dei contenuti, il contesto in cui nascono e la possibile influenza di condotte provocatorie, riaffermando un principio di responsabilità fondato su elementi oggettivi e non su valutazioni soggettive o stereotipate.
S.B.
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