Seppur lontana dalle logiche delle imprese abituate a correre veloci alla continua ricerca di nuovi spazi di business, mercati e opportunità, l’Università ha dato prova durante il lockdown di saper gestire le crisi in maniera innovativa e all’avanguardia stando al passo con i tempi. Strutture elefantiache, burocrazia e scarsi fondi non hanno rappresentato un limite per la ricerca accademica della penisola in stand-by a causa della pandemia. La capacità di adattamento, la flessibilità, l’abitudine a lavorare con metodi e strumenti sempre diversi hanno fatto in modo che la ricerca, per lo meno quella sociale, non si trovasse impreparata. E i gruppi di ricerca, già composti da studiosi con fuso orario diverso, hanno continuato a lavorare su nuovi progetti introducendo paradigmi e modelli economico-sociali legati alla pandemia. Sperimentando nuove modalità di raccolta dati e prove empiriche, i centri di ricerca universitari sono così diventati un osservatorio privilegiato per studiare il comportamento umano, i mercati, le imprese, la pubblica amministrazione.
Ci siamo sentiti dire che l’Università durante la pandemia ha dato prova di grande resilienza. È vero. In parte, le strutture universitarie non erano pronte ad affrontare il lockdown e hanno dovuto immediatamente pensare a strumenti e piattaforme digitali per raggiungere tutti gli attori coinvolti. L’Università è luogo di cultura, crescita, incontro e scambio di idee. La dimensione fisica ha la sua importanza, specialmente nel rapporto con gli studenti durante l’intero percorso formativo. Ma in particolare alla ricerca, che invece era già abituata alle distanze sociali, va riconosciuto il merito di essere stata un apripista in tempi non sospetti. Da sempre resiliente per sua natura e abituata allo smart working, quello vero, fondato sulla responsabilizzazione, flessibilità e orientamento ai risultati.