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DIFFAMAZIONE, INGIURIA E SOCIAL NETWORK

Non tutte le offese e gli insulti per via telematica sono reato. Recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza 28675/2022 si è occupata degli scritti offensivi in chat Whatsapp

by Redazione
10 Gennaio 2023
in Diffamazione, Tecnologie
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DIFFAMAZIONE, INGIURIA E SOCIAL NETWORK
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In primo luogo, bisogna fare una importante precisazione: la diffamazione e l’ingiuria sono due concetti differenti.

  • La diffamazione è l’offesa pronunciata in assenza della vittima davanti a due o più persone. Costituisce un reato che fa parte dei “delitti contro l’onore”. La pena è prevista dall’art. 595 c.p. ed è quella della reclusione fino a due anni oppure una multa fino a euro 2.065. La diffamazione sarebbe più grave se la lesione dell’altrui reputazione si realizza attraverso l’attribuzione di un fatto determinato perché aumenta la credibilità della diffamazione e può contribuire a rappresentare in modo ancor più negativo la persona offesa.
  • L’ingiuria è l’offesa rivolta direttamente alla vittima, a prescindere dal fatto che questo avvenga in presenza di altre persone. A seguito della depenalizzazione operata dal D.lgs 7/2016 l’ingiuria non è più considerata reato. Prima era prevista dall’art. 594 del Codice Penale ed era sanzionata la condotta di: “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente”. La legge riconosceva a tutti, anche dal punto di vista penalistico, il diritto di non essere offesi nell’onore e nel decoro. Quindi, il “vecchio” art. 594 c.p. non considerava la presenza dell’offeso come una circostanza che potesse esser considerata a carico o a favore dell’imputato, ma un vero e proprio elemento costitutivo del reato.

La distinzione così come oggi la conosciamo è stabilita dal Codice Rocco (Regio Decreto, 19 ottobre 1930, n. 1398), mentre, sotto la precedente legislazione – Codice Zanardelli (R.D. 30 giugno 1889 n. 6133, artt.li 393 e 395) – l’attribuzione di un fatto determinato era la caratteristica del delitto di diffamazione (circostanza poi divenuta aggravante sia dell’art. 594 sia dell’art. 595), mentre l’ingiuria era l’offesa all’onore ed al decoro perpetrata “in qualsiasi modo” ovvero mediante l’attribuzione di un fatto indeterminato.

Entrambe le condotte si possono verificare attraverso offese verbali o scritte, anche con l’utilizzo di mezzi telematici (call conference, audioconferenza, videoconferenza, chat virtuali). Quindi la Cassazione ha ritenuto equiparabili i concetti di “presenza” e i moderni sistemi di comunicazione. Secondo la giurisprudenza per concretare il delitto in parola non occorre che la propalazione delle frasi offensive avvenga simultaneamente, purché sia rivolta a più persone.

La reputazione di ciascuno deve essere tutelata perché è quel bene di relazione costituito dalla stima e della considerazione in cui l’individuo è tenuto dalla comunità in cui vive. La reputazione riguarda il rispetto sociale minimo, cui ogni persona ha diritto, indipendentemente dalla sua buona o cattiva fama.

Tuttavia, per la Suprema corte occorre valutare caso per caso. Se l’offesa viene operata nel corso di una riunione da remoto, quindi a distanza, tra più persone contestualmente collegate, e partecipa anche l’offeso, si rimanda all’ ingiuria commessa alla presenza di più persone. Ma se si verificano comunicazioni scritte o vocali indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti”, ricorreranno i presupposti della diffamazione.

Sui social network si amplia la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, destinato per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone.

Anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso la bacheca Facebook comporta un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma c.p., dal momento che si tratta di una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o quantitativamente apprezzabile di persone.

L’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità nel reato di diffamazione trova la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti.

Analogamente l’invio di e-mail dal contenuto offensivo ad una pluralità di destinatari -sia all’offeso sia ad altre persone (almeno due) -, conduce al reato di diffamazione nell’eventualità che tra questi vi sia l’offeso. Il mittente è ben consapevole e attua una condotta specifica rivolta a comunicare il messaggio a ciascuno dei destinatari prescelti digitando il singolo indirizzo di posta elettronica nell’apposita casella.

Laddove si prendono in considerazione comunicazioni (scritte o vocali) indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente presenti in unità di tempo e di luogo, quindi in accezione a presenza virtuale o da remoto, allora ricorrono i presupposti del reato previsto e punito dall’articolo 595 del Codice Penale.

La questione si sposta poi su Whatsapp, sistema di messaggistica istantanea diffusissimo, che permette di creare chat di gruppo e inviare messaggi a più persone, le quali possono riceverli immediatamente o in tempi differiti a seconda dell’efficienza del collegamento a Internet.

I destinatari possono leggere i messaggi in tempo reale perché stanno consultando proprio quella chat, e, quindi, rispondere con immediatezza. Oppure, come accade spesso, possono leggerli a distanza di tempo, quando non sono online o, pur essendo collegati a Whatsapp, si trovino impegnati in altra conversazione virtuale e non consultino immediatamente la conversazione dove il messaggio è stato inviato. Se ne deduce che la percezione da parte della vittima dell’offesa può essere contestuale, ovvero differita, a seconda che stia consultando proprio quella specifica chat di Whatsapp o meno. Nel primo caso, vi sarà ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quanti sono i membri della chat perché la persona offesa dovrà ritenersi virtualmente presente. Nel secondo caso si avrà diffamazione, in quanto la vittima dovrà essere considerata assente.

Tags: Corte di CassazioneDiffamazioneDiffamazione via socialingiuriareatosentenzaWhatsApp
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