L’intelligenza artificiale e le innovazioni radicali possono neutralizzare gli effetti del “malessere demografico”. La ricetta arriva dal Giappone e potrebbe sfatare il luogo comune italiano che in maniera semplicistica addebita all’automazione la distruzione di posti lavoro.
Come scrivono Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete in “Italiani poca gente” (Luiss University Press), quello italiano è ormai un “malessere demografico” conclamato che, tra bassissima natalità e intenso invecchiamento, da oltre vent’anni sta modificando in profondità la nostra società. Nel 1980 in Italia c’erano 17 milioni di under 20 e 10 milioni di over 50; 35 anni dopo, nel 2015, il rapporto si è esattamente invertito, abbiamo 10 milioni di under 20 e 17 milioni di over 60. L’impatto sulla forza lavoro giovanile è imponente: se nel 1998 gli occupati di età compresa tra i 15 e i 34 anni in Italia erano 7,6 milioni (su 16,5 milioni di 15-34enni), oggi i giovani lavoratori sono 5,1 milioni (su 12,5 milioni di giovani). Dunque, soprattutto per effetto della bassa natalità, in vent’anni abbiamo perso un giovane occupato su tre. E’ in un contesto simile che occorre valutare gli effetti delle innovazioni radicali, robotica in testa, sul mondo del lavoro. Un Paese come il Giappone lo ha capito, fin dagli anni 90, quando è diventato il principale utilizzatore di robot nel comparto manifatturiero. Oggi Tokyo esporta robot industriali per un valore di 1,6 miliardi di dollari l’anno, più della somma dei suoi cinque principali concorrenti (Germania, Francia, Stati Uniti, Corea del Sud e Italia), e primeggia nell’Intelligenza artificiale applicata. Così, a fronte di una forza lavoro che si assottiglia a causa delle culle vuote, i settori del manifatturiero nipponico a maggiore “densità d’automazione” – automotive ed elettronica in primis – hanno guadagnato in produttività e continuano a farsi largo nei mercati internazionali.