Marta Bertolaso, Professore Associato di Logica e Filosofia della Scienza presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, ha tenuto di recente una interessantissima conferenza on line per la Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana) sul tema: “Dalle transizioni digitali a un umanesimo tecnologico”. Il nostro portale ha seguito la conferenza e le ha rivolto alcune domande.
Lei ha parlato di nuovo umanesimo tecnologico alla luce del Covid-19. Come lo immagina?
Per cominciare vedo l’opportunità, per l’uomo, di conoscere meglio sé stesso e le sue potenzialità grazie alle nuove tecnologie. Qualcuno vede nella pervasività dell’innovazione tecnologica un processo che produce “misteriose machine” da cui potranno saltar fuori nuovi pericoli. Concentrandosi solo sulle macchine si rischia di perdere di vista il vero centro della questione: il fattore umano. Si pone quindi la necessità di promuovere una più matura comprensione della persona sia nella sua dimensione individuale che collettiva. Il concetto di relazione può diventare, grazie alle nuove tecnologie, ancora più centrale di quanto non lo fosse in passato. Si potrebbe dire che il nuovo umanesimo tecnologico sarà caratterizzato da relazioni tra persone più profonde e significanti, probabilmente mediata da una ulteriore democratizzazione di vari processi. Un mondo in cui la relazione diventa la dinamica centrale della società diventa un mondo in cui il “prendersi cura” (caring) prevarrà sulla produttività come fino ad ora intesa. Le stesse aziende avranno l’opportunità di trasformarsi in reti di persone fortemente interconnesse, con l’opportunità di creare veri e propri ecosistemi caratterizzati da valori condivisi.
In che modo le tecnologie stanno cambiando comunicazione, educazione e sanità, la triade da lei indicata durante la conferenza?
Credo che le nuove tecnologie stiano generando un cambiamento analogo a quello che fu introdotto dalla scrittura che, parafrasando un autore contemporaneo, ha permesso di rendere visibile l’invisibile. Comunicazione, educazione e sanità hanno poi in comune due aspetti fondamentali: appartengono alla dimensione del “caring”, della cura, dimensione fondamentale di umanità e umanizzazione per ogni lavoro umano e di crescita integrale dell’uomo. Le nuove tecnologie quindi possono mediare questi processi e transizioni come è risultato evidente durante l’epidemia COVID19, non solo permettendo di vedere l’invisibile ma rendere tangibile l’intangibile (relazioni, affetti, prossimità, condivisioni). La conoscenza tecnologica fino ad oggi prodotta dovrà ora essere decodificata per poter essere usata nel migliore dei modi possibili, a fianco all’innovazione tecnologica dovremo promuovere una educazione non solo digitale, ma anche umana dei cittadini. Più forte sarà la spinta alla digitalizzazione, più intense dovranno essere le attività di umanizzazione.
Lei ha accennato alle fake news “involontarie”. Non crede che l’informazione professionale possa rappresentare un valore aggiunto rispetto al flusso incontrollato di notizie non vagliate che viaggiano sui social?
Più che un valore aggiunto direi che l’informazione professionale sia fondamentale. E’ necessario però che chi comunica conosca l’oggetto di cui parla ma anche il soggetto a cui si rivolge e il suo contesto. Quando parlo di “involontarie” mi riferisco a quella comunicazione che, seppur formalmente corretta, viene recepita in modo distorto. L’informazione non è costituita solo da fatti che quindi devono essere verificati prima di essere diffusi. L’informazione è anche significato e a quest’ultimo siamo meno allenati. E’ sotto gli occhi di tutti ad esempio come narrazioni sensazionalistiche o scandalistiche risultino per molta gente più interessanti di notizie ben spiegate. Mediare tra il background socio culturale del lettore e quello del giornalista professionista diviene a mio parere uno dei compiti più importanti per promuovere una sana informazione.
Al termine del suo intervento lei ha accennato al rischio di prolungate manipolazioni delle coscienze dovute alla proroga dell’emergenza. Quali rischi vede in uno scenario del genere?
Questo è un dato nella biologia evolutiva, un’evidenza negli studi dei sistemi complessi, dell’esperienza storica e quotidiana, direi che quindi ormai appartiene quasi al senso comune. Una popolazione sana e fiorente è ricca di differenze che alimentano la dinamica del sistema comunitario oltre a garantirne la resilienza in periodi di stress o crisi. Per contro situazioni di stress riducono l’eterogeneità delle soluzioni, concentrando l’attenzione su poche azioni di sopravvivenza. Si alimenta così un senso di precarietà e di paura che tipicamente riduce lo spazio di azione creativo e libero. Situazioni di emergenza inoltre richiedono una verticalizzazione del controllo dove uno o pochi indicano cosa fare e gli altri seguono allineandosi. Ecco quindi come uno stato prolungato di emergenza possa condurre ad “irrigidimenti” del sistema e alla perdita di questi “gradi di libertà” che in natura garantiscono ai sistemi le capacità di evolversi ed adattarsi. Individui inseriti in sistemi rigidi inevitabilmente cambiano il proprio modo di comportarsi, inevitabilmente rischiano di subire più facilmente manipolazioni.
Quale sarà l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla vita quotidiana delle persone?
Non credo che una risposta univoca sia possibile. Di solito preferisco capovolgere la domanda e interrogarmi su cosa significa essere umani oggi e a mio avviso la parola chiave è relazione. Trovo più feconda una riflessione su cosa significhi interagire con il mondo umana-mente e artificial-mente. Che differenza c’è tra una relazione umana ed una artificiale? Ecco allora quanto diventa importante educare i giovani alla relazione, all’apertura vera agli altri e al mondo. Senza la consapevolezza di questo valore sarà difficile non farsi “guidare” dalle macchine. Al contrario, ed è qui la grande opportunità, l’intelligenza artificiale ci potrà fornire i mezzi per coltivare relazioni più profonde e pervasive tra di noi. Relazioni più feconde che ci porteranno a prendere maggior consapevolezza di quel “noi” che è l’umanità.