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DIFFAMAZIONE A MEZZO FACEBOOK: NON È INDISPENSABILE INDIVIDUARE L’INDIRIZZO IP DEL MITTENTE, MA È SUFFICIENTE LO SCREENSHOT DEL POST DIFFAMATORIO

È stata recentemente oggetto di ricorso per cassazione la sentenza della Corte d'appello dell’Aquila, che, riformando in parte il provvedimento di condanna, reso in primo grado, nei confronti dell’imputato per il reato di diffamazione, aveva rideterminato la pena detentiva originariamente applicata in quella di Euro 1.500 di multa

by Redazione
29 Febbraio 2024
in Diffamazione
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DIFFAMAZIONE A MEZZO FACEBOOK: NON È INDISPENSABILE INDIVIDUARE L’INDIRIZZO IP DEL MITTENTE, MA È SUFFICIENTE LO SCREENSHOT DEL POST DIFFAMATORIO
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Secondo il capo di imputazione, il condannato, mediante pubblicazione sulla piattaforma Facebook di espressioni quali, tra le altre, “veniteci voi a mangiare in questo porcile“, offendeva la reputazione della parte civile, gestore di un albergo.

Avverso la sentenza, proponeva ricorso per cassazione l’imputato.

In particolare, con il primo motivo, lamentava la violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli artt. 192 c.p.p. e 240 cod. pen., per inidoneità del compendio probatorio acquisito nel corso dell’istruttoria dibattimentale a fondare l’ascritta responsabilità per il reato di diffamazione. 

L’unico elemento a tal scopo utilizzato dai Giudici del merito è stato, si evidenziava, un insieme di frammenti di messaggi fotografati (cd. Screenshot), asseritamente estratti dalla pagina Facebook dell’imputato. Tuttavia, tale elemento non poteva ritenersi sufficiente ad attribuire al ricorrente la paternità dei post, in assenza di più specifici accertamenti tesi a individuare l’indirizzo IP del mittente. In assenza di prova certa circa la loro provenienza (di cui la difesa indica le singole, mancate scansioni in cui detta prova avrebbe dovuto articolarsi), i messaggi dovevano ritenersi anonimi, ragion per cui i Giudici del merito avrebbero dovuto tener presente il divieto di acquisizione e utilizzazione di cui all’art. 240 cod. pen.

Ebbene, il ricorso veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione perché reiterativo di censure afferenti, tutte al merito già confutate con argomenti logicamente coerenti, oltre che fondati dal punto di vista più strettamente giuridico in base orientamenti giurisprudenziali che venivano correttamente indicati dalla Corte d’Appello.

Quest’ultima aveva infatti esaurientemente illustrato il percorso logico che aveva portato ad attribuire all’imputato la paternità dei post diffamatori, in ragione delle pregresse discussioni tra persona offesa e imputato in relazione alle condizioni della struttura alberghiera e la qualità del menù. 

Coretto era altresì il rilievo della Corte di Appello relativamente alla mancata prospettazione, da parte della difesa, di una credibile alternativa ricostruzione fondata sull’accesso abusivo da parte di terzi nel profilo della pagina Facebook dell’imputato, recante nome e foto dello stesso.

A tal riguardo, si evidenziava come l’eccezione difensiva si poneva in palese contrasto con quanto già chiarito in passato dalla giurisprudenza della Corte a proposito del carattere non necessario dell’accertamento tecnico relativo alla titolarità dell’indirizzo IP, da cui risultavano spediti i messaggi offensivi. 

Infatti, «ai fini dell’affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l’accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell’indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo “Facebook” sia attribuibile all’imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l’argomento del “forum” sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del “post” dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo “nickname”» (Cass. Penale, Sez. 5, n. 38755 del 14/07/2023).

Ed ancora, «in tema di diffamazione a mezzo “internet”, anche in mancanza di accertamenti informatici sulla provenienza dei “post”, è possibile riferire il fatto diffamatorio al suo autore su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali: il movente; l’argomento trattato nelle frasi pubblicate o il tenore offensivo dei contenuti; il rapporto tra le parti; la provenienza dei messaggi dalla bacheca virtuale dell’imputato, con utilizzo del “nickname” dello stesso; l’assenza di denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatario del “profilo” sul quale vi è stata la pubblicazione dei “post” incriminati» (Cass. Pen, Sez. 5, n .25037 del 17/03/2023).

 

di Daniele Concavo – Avvocato del Foro di Milano con particolare esperienza nel mondo del Fitness e nella tutela della reputazione aziendale e personale. L’Avv. Concavo è Cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della comunicazione d’impresa con il Professore Ruben Razzante all’Università Cattolica di Milano. 

Tags: CassazioneDiffamazioneFacebookpost diffamatoriosocial media
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