L’associazione no profit Permesso Negato, che studia il fenomeno del revenge porn e offre sostegno alle vittime in Italia, ha commissionato uno studio a The Fool, società di reputazione digitale che, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2022, ha lavorato su un campione di 2.000 persone.
Il revenge porn è un fenomeno molto diffuso: secondo i numeri presentati nell’analisi di Permesso Negato, in Italia una persona su sei ha prodotto questo tipo di contenuti almeno una volta, mentre la metà ammette di averli anche condivisi. Le vittime sono per il 70% dei casi donne eterosessuali, con un’età media di 27 anni, che scoprono la diffusione del contenuto in autonomia, oppure a seguito della segnalazione da parte di conoscenti o sconosciuti.
Nonostante siano passati quasi tre anni dall’entrata in vigore della legge Codice rosso, la condivisione non consensuale di materiale intimo non è ancora considerata alla stregua di altri reati e il nuovo regolamento dell’Ue, che punta a rendere più sicuro il web, all’ultimo momento ha eliminato una disposizione che avrebbe potuto contrastare la condivisione non consensuale di contenuti sessuali.
Non considerare la condivisione non consensuale di materiale intimo come un reato significa anche meno denunce: solo il 50% delle vittime intervistate nello studio afferma di averlo fatto. Questo perché, nonostante la denuncia venga considerata l’azione più efficace per proteggersi, c’è scetticismo nei confronti delle forze dell’ordine. Le vittime, quindi, cercano una mediazione con l’autore del reato al fine di convincerlo a rimuovere il contenuto che le ritrae.
Il lavoro di assistenza (psicologica e non solo) operato dalle associazioni che si occupano del tema in Italia è fondamentale: più del 30% delle persone intervistate ha ammesso di non voler denunciare per paura che la vicenda possa diventare di pubblico dominio e portare, per esempio, a conseguenze come la vittimizzazione secondaria. Quest’ultima “consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale”. Tra le criticità emerge infatti la mancata adozione, da parte di Tribunali ordinari e per minori, di cautele che possano evitare forme di vittimizzazione secondaria nel corso di un procedimento giudiziario penale.
Lo studio testimonia anche la percezione che si ha del fenomeno: quasi la metà degli intervistati considera la condivisione non consensuale di materiale intimo come uno dei temi più preoccupanti riguardo alla sicurezza informatica, secondo solo al furto di dati personali e alle truffe online. Un dato interessante se si considera il fatto che l’84% di chi ha condiviso immagini o video intimi senza che la vittima ne fosse a conoscenza lo rifarebbe (perché è divertente e non offensivo); soltanto il 13% dichiara di aver sbagliato e il 10% giustifica le proprie azioni in quanto non a conoscenza della non consensualità della vittima. Per la metà delle vittime vedere le proprie immagini intime online significa sperimentare attacchi di panico e arrivare a soffrire di ansia o depressione; il 40% delle vittime dichiara di aver perso la propria autostima mentre il 41% ha fatto ricorso ad atti di autolesionismo o pensato al suicidio.
Da questo report emerge una situazione complessa e in divenire, all’interno della quale la condivisione non consensuale di materiale intimo si configura come una tematica conosciuta ma ancora sottovalutata, dalle autorità competenti quanto dai cittadini.
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