Finché non vi erano alternative ai format classici della pubblicità che abbiamo conosciuto per anni, ad esempio, il commercial televisivo, chiaramente riconoscibile, inserito in uno specifico break, con modalità espressive codificate, il lavoro del regulator risultava più circoscritto. Nel momento in cui i format hanno varcato quel perimetro e cominciato a ibridare la pubblicità con l’intrattenimento, con l’informazione, la valutazione è diventata più complessa e la possibile area grigia aumentata.
Questa complessità fa ritenere che l’approccio regolamentare da preferire di fronte a fenomeni nuovi nel mondo della comunicazione commerciale sia in termini di soft law, e quindi in primis ricorrendo a un sistema autodisciplinare. Tuttavia fino a quando alcune esperienze rimangono di nicchia difficilmente emerge una mobilitazione di energie su quel tema, anche se tuttavia la dimensione digitale vive di tempi molto accelerati.
Nel 2016 lo IAP ha ritenuto, per esempio, che i tempi erano maturi per regolamentare l’influencer marketing. Il primo passo è stato lo studio e la mappatura dell’esistente. Quindi analisi del mercato, studi comparativi, coinvolgimento degli stakeholders, broad consultation. Da questa messe d’informazioni, siamo passati a stendere una mappa del fenomeno in chiave di linee guida orientative. Un “work in progress” data la materia, che ha ricevuto man mano consensi sempre più ampi e concreta applicazione da parte degli operatori, processo cha ci ha poi portato al varo di un Regolamento cogente parte integrante del Codice di autodisciplina pubblicitaria.
La plasticità dello strumento autodisciplinare, la dinamica “bottom up” che lo caratterizza, fa sì che l’Autodisciplina risulti lo strumento regolatorio di gran lunga migliore rispetto a quello legislativo, quest’ultimo non in grado di offrire analoga velocità e analisi di dettaglio, oltre alla possibilità di costanti modifiche in chiave migliorativa.
Analogo processo potrebbe agevolmente riproporsi anche nel caso dell’uso della Realtà Aumentata in pubblicità.
Dalla letteratura presente in Rete su questo argomento emerge che l’angolazione giuridica prevalente è quella dell’Intellectual Property. Quindi accertamento della titolarità o della disponibilità dei diritti IP sui contenuti. Il consenso all’uso dei marchi, diritti d’autore; ricerche di anteriorità; diritti di immagine. Un ambito certamente d’interesse anche autodisciplinare che potrebbe essere ampiamente affrontato con le norme IAP sull’utilizzo della creatività/marchi altrui, denigrazione del prodotto del concorrente, ecc. .
La realtà aumentata pone dunque problemi giuridici su vari fronti: su fronte della IP; privacy; sicurezza; tutela dei minori.
Riguardo a quest’ultimo filone, c’è un caso interessante affrontato dall’ASA, l’autodisciplina pubblicitaria inglese. Un “filtro” di Snapchat veniva utilizzato per pubblicizzare il rum Captain Morgan. Il filtro permetteva di far apparire il volto dell’utente con indosso la divisa del bucaniere Captain Morgan, come rappresentato sull’etichetta del liquore, mostrando, inoltre, due bicchieri che tintinnavano insieme sullo schermo: il tutto in chiave di cartoon. L’Autodisciplina inglese contestò all’azienda che questo messaggio fosse di particolare attrattiva per i minori di 18 anni e lo dichiarò in contrasto con il Codice inglese.
C’è però un altro tema consumeristico rilevante, quello dell’ingannevolezza del messaggio.
Il problema apparentemente è quello classico: garantire al consumatore che si trova nella situazione di ricevere informazioni “aumentate” la fruizione di un messaggio veritiero e riconoscibile come comunicazione commerciale. Tuttavia uno dei valori aggiunti del fenomeno della RA, è il particolare coinvolgimento emotivo del consumatore. Questo particolare stato potrebbe giustificare una tutela del consumatore, per usare un gioco linguistico, altresì “aumentata”?
Se una corretta valutazione della pubblicità impone di considerare il messaggio nella sua complessità e nel contesto in cui si colloca, possono mutare, allora, i criteri di giudizio sulla correttezza dei singoli messaggi, in relazione alla tipologia di consumatore contattato, e alle specifiche modalità per mezzo delle quali viene raggiunto?
La Realtà Aumentata in pubblicità rende forse anche meno generalizzabile la figura dell’“iperbole pubblicitaria”, da sempre considerata lecita e contrapposta al “vanto prestazionale”, vincolato a parametri oggettivi verificabili.
Sono dunque possibili riletture sul piano del diritto pubblicitario, che sollevano interrogativi circa l’esigenza di nuove possibili declinazioni di principi fondamentali.
Le nuove tipologie di messaggio potrebbero suggerire un giudizio di ingannevolezza tarato sullo “stato emozionale” del consumatore del momento.