Il diritto all’oblio (art. 17 del GDPR) riguarda la cancellazione dei propri dati personali a tutela della propria reputazione. È possibile chiedere a Google e altri motori di ricerca di non far apparire nel motore nessun risultato pertinente alla propria persona. Se Google accetta tale richiesta, deve “deindicizzare” le pagine web che contengono quelle informazioni.
La normativa che riguarda il trattamento dei dati personali nei 27 Paesi membri dell’UE prevede il diritto dei cittadini di riappropriarsi di ciò che appare se viene cercato il proprio nome online, ma spesso ciò si scontra con la libertà di stampa e con il diritto alla conoscenza, e ci sono molte aree grigie.
Secondo la giustizia europea non occorre aspettare una decisione giudiziaria per ottenere la tutela della propria reputazione: Google deve cancellare le informazioni dal motore di ricerca, anche senza aspettare che la persona coinvolta si rivolga a un giudice per la rimozione di contenuti offensivi, lesivi o scorretti.
L’8 dicembre 2022 la Corte di Giustizia europea ha stabilito che per esercitare questo diritto basterà convincere Google dell’inesattezza, anche parziale, di quei fatti. Nella sentenza n.197/22 i giudici hanno ribadito che per il diritto all’oblio non solo è valido il principio dell’evidente scorrettezza dei dati, ma sarà necessario deindicizzarli anche qualora non dovessero essere aggiornati o dovessero essere imbarazzanti per l’individuo che ne chiede la cancellazione.
La sentenza nasce da una causa che coinvolge Google e una società tedesca di investimenti. Due dirigenti di tale società avevano chiesto a Google l’eliminazione di link ad alcuni articoli che criticavano il loro modello di investimento sulla base di affermazioni false, e delle loro foto che apparivano sotto forma di miniature. Di fronte a questa richiesta, l’azienda statunitense si è rifiutata perché non aveva la certezza che le informazioni fossero vere. Allora, la Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca) si è rivolta alla Corte di Giustizia affinché fornisse un’interpretazione delle norme europee, ossia del regolamento generale sulla protezione dei dati e della direttiva relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, letta tenendo conto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dunque, la decisione di Google è stata ribaltata dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha stabilito che il motore di ricerca deve procedere all’eliminazione dei risultati davanti a tali richieste.
Nella sentenza, la Corte ha ricordato che il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto, ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione nella società ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, in conformità al principio di proporzionalità. Ha stabilito, quindi, che se l’interessato presenta “prove pertinenti e sufficienti in grado di motivare la sua richiesta e di stabilire la manifesta inesattezza delle informazioni”, il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere tale richiesta. I motori di ricerca non dovranno indagare su ogni caso per determinare se il contenuto sia accurato o meno, altrimenti il quantitativo di lavoro extra per le aziende sarebbe eccessivo. Basterà rimuovere i risultati in maniera pro-attiva dopo la ricerca.
Per quanto riguarda le foto presenti sul motore di ricerca, queste dovevano essere subito rimosse in quanto il contenuto vero e proprio non era online da molto tempo.
Come riportato da Repubblica, Massimo Borgobello, avvocato esperto di privacy, spiega: “È qui il punto nuovo. Finora Google ha accettato queste richieste solo con un ordine di un giudice o un provvedimento del Garante privacy”. Certo, l’azienda può ancora rifiutarsi di cancellare, “ma dopo questa sentenza rischia sanzioni privacy più forti e più certe, anche milionarie”, aggiunge Borgobello.
La Corte ha rafforzato il diritto all’oblio solo in merito a informazioni false. Questo diritto può essere esercitato, con alcuni limiti, anche in pagine contenenti fatti veri ma privi di rilevanza pubblica (ad esempio notizie di condanne molto vecchie).
Inoltre, la Corte ha stabilito che anche la visualizzazione di foto di persone in formato miniatura “è tale da costituire un’interferenza particolarmente significativa con i diritti alla vita privata e ai dati personali”. Dunque, in seguito a una richiesta di cancellazione, Google è tenuta a “verificare se la visualizzazione di tali foto sia necessaria per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad accedere a tali foto”.
Google ha accolto positivamente la sentenza, spiegando di aver attivato il diritto all’oblio in Europa già nel 2014, con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra le varie norme vigenti che riguardano la libertà di espressione e la libertà di stampa. Secondo l’ultimo report annuale di trasparenza, da quell’anno ha rimosso circa 5,25 milioni di link per il diritto all’oblio.
Ricordiamo, però, che quando Google rimuove un link lo oscura solo in relazione al nome della persona che ne ha fatto richiesta, mentre l’articolo originario continua a essere raggiungibile attraverso altre ricerche degli utenti.