Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con sentenza n. 241 depositata il 1° dicembre, annullando la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati il 24 marzo 2021, ritenendo le affermazioni prive di un nesso funzionale con l’attività svolta in Aula.
La vicenda nasce da un post di un ex onorevole del Pd che nel settembre 2012, con riferimento alle proteste “No Tav” in Val di Susa, avrebbe offeso la reputazione di un vicesindaco e due attivisti di un centro sociale.
A seguito di querela presentata dalle persone offese, il pubblico ministero aveva esercitato l’azione penale, ritenendo che le affermazioni dell’imputato avessero contenuto diffamatorio e fossero aggravate dall’attribuzione di fatti determinati e dalla diffusione dell’offesa con un mezzo di pubblicità.
Nel marzo 2021, tuttavia accogliendo la proposta della Giunta, l’Assemblea della Camera dei deputati a larga maggioranza aveva ritenuto che si trattava di opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e perciò coperte dalle garanzia dell’insindacabilità prevista dall’articolo 68 della Costituzione.
Ma il tribunale di Torino non si è arreso e ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione affermando che la frase “non sia divulgativa di alcun atto parlamentare attribuibile al deputato, con la conseguenza di non poter essere ritenuta opinione espressa nell’esercizio della funzione”. E la Consulta gli ha dato ragione.
Secondo la giurisprudenza della Corte, infatti, per ravvisare un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l’espletamento delle sue funzioni, “è necessario che le stesse possano essere riconosciute come espressione dell’esercizio di attività parlamentare, vale a dire che assumano carattere divulgativo di quanto riconducibile a quest’ultima”.
Nella decisione si legge che né la relazione della Giunta né la deliberazione della Camera “indicano atti parlamentari, anteriori o contestuali, che abbiano un contenuto corrispondente a quanto pubblicato su Facebook, vale a dire che denuncino la pretesa delazione appena indicata, e l’uso di coordinamento dell’azione violenta che ne sarebbe stato fatto”. E non possono avere rilievo gli atti parlamentari successivi alla dichiarazione “perché, per definizione, quest’ultima non può essere divulgativa dei primi”.
In definiva, conclude la Corte, “non risulta alcuna opinione, resa nell’esercizio della funzione parlamentare, che abbia un contenuto nella sostanza corrispondente al fatto specifico denunciato dall’onorevole su Facebook con la dichiarazione reputata insindacabile”.